Verso il compromesso tra formiche e cicale?

Le politiche monetarie stabilite dalla Bundesbank e quelle fiscali promosse dai Governi dell’Eurozona coincidono nello stimolare la ripresa dopo il crollo del 2020. Ma il nuovo Governo tedesco potrebbe spingere verso un graduale ritorno al rigore
/ 01.11.2021
di Lucio Caracciolo

L’addio di Jens Weidmann alla guida della Bundesbank potrebbe segnare la fine di un’epoca non solo nella Banca centrale tedesca, ma nelle politiche monetarie ed economiche della Bundesrepublik. Il precoce prepensionamento dell’anti-Draghi, appena cinquantatreenne, accade infatti mentre a causa dell’emergenza Covid-19 i Paesi dell’Eurozona hanno virato verso la strada dell’espansione fiscale stimolata dal colossale (per i parametri europei) fondo Next Generation Europe – vulgo, Recovery Fund – con il quale la Germania ha accettato di garantire il debito di tutta l’area. A cominciare dalla super-peccatrice, l’Italia. Ciò che all’ex presidente della Bundesbank è apparso e continua ad apparire distribuzione gratuita di droga.

Questa decisione, molto sofferta, personalmente sostenuta e imposta a una importante quota refrattaria del suo stesso partito dalla cancelliera Angela Merkel, deriva infatti da un’interpretazione del Patto di stabilità e crescita in chiave rivoluzionaria. Il contratto dell’austerità collettiva, espressione quasi perfetta della cultura monetaria tedesca, è stato volto nel suo imperfetto ma effettivo contrario. Oggi come mai le politiche monetarie stabilite dalla Bundesbank e quelle fiscali, promosse dai Governi dell’Eurozona in sintonia con il resto del mondo che conta – a cominciare dagli Stati uniti – coincidono nello stimolare la ripresa dopo il crollo del 2020.

Questa fase dovrebbe chiudersi, in teoria, entro poco più di un anno. In vista del ritorno a una lettura molto più restrittiva degli accordi monetari e fiscali nell’Eurozona, tutti i Paesi coinvolti affilano le armi. Specie quelli dell’Europa meridionale, le cosiddette «cicale» tra cui spiccano Italia e Francia, che intendono proseguire e magari sviluppare l’approccio corrente. Fino a vestirlo di panni para-federalisti, ovvero strutturando via eurobond il principio della solidarietà fra gli Stati nella gestione del debito. Con i più forti e rigorosi – chiamati «formiche», pilotati dalla Germania e concentrati nell’Europa settentrionale – chiamati a soccorrere i più fragili, dunque esposti alle intemperie dei mercati, in nome dell’appartenenza alla medesima famiglia. Ciò che, se l’Unione europea avesse un senso davvero federalista, avrebbe molto senso. Sarebbe anzi percorso obbligato.

Weidmann non l’ha mai pensata così e non ha certo cambiato idea. Leggendari i suoi scontri con Draghi in seno alla Banca centrale europea, al tempo in cui l’attuale capo del Governo italiano ne era il presidente. In una prima fase sembrava che Draghi potesse essere assimilato al canone germanico, tanto che la stampa da boulevard tedesca lo raffigurava con in testa l’elmetto prussiano. Quando poi le circostanze e l’inclinazione personale hanno spinto Draghi a incarnare l’eresia «lassista», fino a spingere i tassi attorno allo zero se non in zona negativa, la divergenza di opinioni e di culture si è fatta feroce. Con Weidmann molto spesso ridotto in minoranza, quando non solo con sé stesso, a testimoniare una politica monetaria ormai fuori tempo.

Non sappiamo se il ritiro dalla scena pubblica da parte dell’ex presidente della Bundesbank sia provvisorio o definitivo. Potrebbe forse preludere a un suo passaggio alla politica, intestandosi il ruolo di protettore dell’ortodossia economica e monetaria germanica, in fedele ossequio ai precetti dell’ordoliberalismo? Difficile, anche se non impossibile. Il clima sta cambiando, pare, anche nelle élite tedesche. Il Governo che si sta formando a Berlino sotto la guida di Olaf Scholz, attuale ministro delle Finanze e vice cancelliere socialdemocratico, avrà nei liberali una decisiva componente «ortodossa», pronta a riorientare la barra tedesca ed europea verso il graduale ritorno al rigore. Le culture e le ideologie pesano. Pesa soprattutto l’atavico, leggendario timore dell’inflazione, che sta mostrando segni di riaccensione in tutta l’Eurozona. Timore favorito anche dall’aumento spettacolare della bolletta energetica. Quando la soglia del 2% è valicata, in Germania scatta l’allarme rosso. I media rievocano miserabili scenari weimariani, corredati dal rischio di possibili svolte politiche autoritarie.

Al momento però sembra improbabile che il 2022 possa davvero rivelarsi l’anno del rientro nella norma euro-germanica. Per un dato oggettivo: la minaccia del Coronavirus pare relativamente sedata, ma certamente non eliminata. Probabile anzi che ci si debba abituare a conviverci a lungo. E per una conseguenza politica e sociale valutata soggettivamente, ma che in una misura o nell’altra coinvolge tutta l’Eurozona: il rientro accelerato significherebbe instabilità, disordini, proteste di massa. Di qui la probabilità di un compromesso fra «cicale» e «formiche» che verta sulla priorità della pace sociale – e del consenso politico – rispetto alla fredda contabilità che gli euromeridionali bollano austerità, qualcosa di molto vicino al male assoluto. Prepariamoci dunque a una battaglia senza esclusione di colpi intorno alle politiche monetarie e fiscali nella zona euro. Con Weidmann in panchina, per ora. Ma difficilmente ridotto a muto spettatore.