«La Corea del Nord cerca guai. Se la Cina decide di aiutarci sarà ottimo. Altrimenti risolveremo il problema senza di loro». Com’è sua consuetudine, Donald Trump ha usato Twitter per lanciare questo ultimatum al regime di Pyongyang, mettendolo in guardia contro azioni aggressive (che includono, presumibilmente, un nuovo test nucleare). Il regime di Kim Jong-un reagisce con la consueta durezza: «Le mosse irresponsabili dell’America per invaderci hanno raggiunto una fase cruciale. Siamo pronti a reagire in ogni modo alla guerra voluta dagli Stati Uniti. Saranno loro i responsabili per le conseguenze catastrofiche».
Il linguaggio è in linea con la cultura bellicosa di un regime che da mezzo secolo sostiene di essere alla vigilia di un’invasione americana, e giustifica ogni sorta di crudeltà contro il proprio popolo in nome di questo stato di mobilitazione permanente. L’allusione a «reagire in ogni modo» è un chiaro riferimento al possibile uso di ordigni nucleari, di cui Pyongyang già dispone, avendoli costruiti in spregio alle norme internazionali (di cui la stessa Cina è firmataria e garante). Il gioco iniziato da Trump comporta rischi per tutti, anche se è ovvio che la pericolosa instabilità di quell’area non l’ha creata lui, è un problema che si aggrava da molti anni.
Tra i pericoli a cui si espone l’America: la Corea del Nord non è la Siria, Kim Jong-un è un personaggio ancora più misterioso e imprevedibile di Assad. Forse anche clinicamente folle, a giudicare da molti suoi comportamenti. Inoltre lui ha l’atomica, Assad no. Militari e scienziati di Pyongyang stanno tentando di sviluppare missili intercontinentali capaci di trasportare ogive nucleari fino alla West Coast americana, ma è improbabile che siano vicini al loro traguardo. L’ultimo test di un missile di lunga gittata è stato un flop. Tuttavia, anche con capacità missilistiche limitate, possono colpire un bersaglio vicinissimo: la Corea del Sud, densamente popolata, e un alleato degli Stati Uniti.
Ci sono grossi rischi anche per la Cina, l’altro attore decisivo in questa partita. Qualora partisse un attacco americano su Pyongyang, potrebbe Pechino assistere passivamente all’aggressione contro un suo «vassallo» e vicino? Mao Zedong entrò in guerra a fianco dei nordcoreani, e fu solo grazie all’intervento cinese che quel conflitto si concluse nel 1953 con un sostanziale «pareggio» e la divisione in due della penisola. Per la Cina c’è anche lo spettro di un collasso del regime di Kim – una delle più feroci dittature del mondo – con al termine lo sbocco probabile di una riunificazione coreana sotto egemonia Usa. Un bis della riunificazione tedesca che portò la Nato ai confini della Russia. Sarebbe un disastro per Xi Jinping.
L’ipotesi più probabile resta quella di una mossa tattica, audace o spregiudicata, azzardata o irrazionale, a seconda degli sbocchi che avrà. Trump vuole mettere paura ai cinesi perché finalmente riducano alla ragione uno staterello impazzito che dipende da loro: senza gli aiuti di Pechino la Corea del Nord sarebbe già implosa. Solo l’energia fornita dalla Cina tiene le luci accese a Pyongyang.
Trump al bastone alterna la carota, offre ai cinesi «un accordo commerciale molto migliore, se ci risolvono il problema nordcoreano». Anche il protezionismo finisce sul tavolo di questa trattativa al cardiopalmo. Ed è pur vero che la leadership cinese ha avuto un comportamento molto ambiguo, da sempre, condannando a parole i test nucleari nordcoreani, ma senza azioni coerenti per stopparli.
Nel frattempo proprio sulla Corea del Nord gli americani sono incappati in un infortunio clamoroso, perfino comico. Dov’è finita l’Invincibile Armada che Trump annunciò di avere spedito al largo della Corea del Nord? Ha continuato a navigare, per una settimana, nella direzione opposta. Allontanandosi sempre di più dal Paese che doveva minacciare, intimidire, indurre alla ragione. Si tinge di giallo, o di farsa, il gesto imperioso con cui il presidente voleva mandare un messaggio a Kim Jong-un per costringerlo a rinunciare a nuovi test nucleari. La decisione di reagire all’escalation nucleare nordcoreana con l’invio di una poderosa flotta militare – inclusa la mega-portaerei Uss Carl Vinson – era stata recepita nel mondo intero come una conferma del «nuovo corso» trumpiano, da isolazionista a interventista in politica estera.
Gli unici a non avere ricevuto quel messaggio, a quanto pare, sono stati proprio gli ammiragli della U.S. Navy e tutti gli equipaggi della flotta in questione. Che ha continuato per una settimana intera a navigare nella direzione opposta. Dirigendosi, imperterrita, verso la sua destinazione «normale», puntando cioè verso quei mari dell’Australia dov’era attesa per un’esercitazione. Il gesto che doveva intimorire Pyongyang non c’era stato, o non era stato trasmesso ai vari livelli della gerarchia militare? O qualcuno non aveva preso sul serio quell’annuncio, all’interno del Pentagono?
Il bilancio di questo mese di aprile è denso di novità nella politica estera, e non solo per quanto riguarda la Corea del Nord. Il presidente americano in poche settimane – e prima ancora di avere raggiunto la fatidica soglia dei «cento giorni alla Casa Bianca» – ha capovolto sistematicamente le promesse fatte in campagna elettorale. Trump è saltato a pié pari dall’isolazionismo all’interventismo (Siria, Corea del Nord), dal putinismo alla nuova Guerra fredda, con tanto di rivalutazione della Nato. Il caso Nato è istruttivo per come Trump gestisce i voltafaccia: dichiarando che sono gli altri ad avere cambiato. Infatti si è attribuito il merito di avere convinto i partner atlantici a occuparsi anche di lotta al terrorismo (cosa che la Nato fa da anni). Un po’ meno clamoroso, ma significativo, è l’aggiustamento sull’Unione europea: ha smesso di prevedere che altri Stati europei seguiranno l’esempio di Brexit.
I ribaltoni a 180 gradi non si limitano alla politica estera. Un paio di novità di rilievo lui le ha annunciate, sempre negli ultimi giorni, su temi economici importanti. Ha improvvisamente detto che la Cina «non manipola la sua valuta» e quindi almeno su quel fronte non è colpevole di concorrenza sleale. Tutto il contrario di ciò che Trump disse per mesi in campagna elettorale, e ancora dopo l’insediamento alla Casa Bianca. Verso la presidente della Federal Reserve, che lui accusava di una gestione politicizzata ed elettoralistica della politica monetaria, ha avuto parole di stima giovedì, ventilando la possibilità di confermare l’obamiana Janet Yellen alla scadenza del suo mandato nel 2018. C’è una logica in questo vortice di ripensamenti, revisionismi, sterzate? Si può apprezzare il pragmatismo di un uomo talmente privo di ideologie e di principi, che per lui tutto è «negoziabile», da buon businessman. O al contrario si può temere l’improvvisazione, l’incompetenza, il dilettantismo alla guida della superpotenza mondiale. Il filo comune è il ritorno verso posizioni più tradizionali della destra repubblicana. Coincide con l’emarginazione dell’estremista Stephen Bannon, nonché l’emergere di gruppi di potere influenti a cui Trump sta delegando molte scelte: in politica estera i generali McMaster, Mattis, Kelly (con la cooptazione di Tillerson nel loro gioco di squadra); nell’economia la cordata Goldman Sachs da cui provengono diversi consiglieri, il genero, e il segretario al Tesoro. Wall Street e le multinazionali lavorano alacremente per svuotare le sue promesse protezioniste.
Qualcuno a sinistra è disposto ad un’apertura di credito: nella sua improvvisazione creativa, Trump forse azzecca qualche mossa giusta. È la tesi del sinologo John Pomfret in un’analisi sul «Washington Post». Pomfret nota che Xi Jinping per la prima volta in assoluto minaccia la Corea del Nord di tagliarle i rifornimenti energetici. Nessun altro presidente Usa aveva costretto i cinesi a un gesto così duro verso il regime vassallo di Pyongyang.
Resta un’altra spiegazione per il Nuovo Trump: scottato da due disfatte gravi in politica interna – i decreti anti-immigrati bloccati nei tribunali, la contro-riforma sanitaria affondata dalle divisioni della destra – non c’è di meglio che una tensione internazionale per distrarre l’attenzione e ricompattare il Paese.