L'inquirente speciale Robert Mueller 


Verdetto ambiguo

Russiagate – Il Rapporto Mueller non dimostra che il presidente Trump è colpevole, ma non stabilisce nemmeno la sua innocenza
/ 01.04.2019
di Federico Rampini

«Il Rapporto Mueller non dimostra che il presidente ha commesso dei crimini; ma non stabilisce la sua innocenza». Il Russiagate si conclude con un verdetto ambiguo, una sorta di assoluzione per mancanza di prove. Ma è pur sempre un’assoluzione. Che ci piaccia o no, Donald Trump ne esce bene. Anzi: trionfalmente. La misura del suo successo è proporzionale alle aspettative esagerate che intorno a quell’indagine furono alimentate a lungo da una parte della sinistra, da una parte dei media, e da una parte delle agenzie d’intelligence (sì, quel Deep State obamiano sul quale Trump e Steve Bannon hanno costruito le loro teorie del complotto). 

Il presidente è stato veloce nel proclamarsi «riscattato, vendicato» dall’esito di quell’inchiesta. La sinistra americana e i suoi media di riferimento, sono sotto shock. Alcuni hanno tentato di arrampicarsi sugli specchi (vedremo come e perché). Altri hanno più ragionevolmente voltato pagina, e si sono occupati d’altro (era ora). Per fortuna le opportunità per fare opposizione su temi validi non mancano: per esempio i rinnovati attacchi del presidente contro la riforma sanitaria di Obama. Ci vorrà un po’ di tempo, però, per digerire la grande delusione sul Russiagate, e metabolizzare gli errori che furono compiuti da chi aveva investito aspettative eccessive su quella strategia di attacco «giudiziaria».

Dopo quasi due anni di un’inchiesta che ha tenuto l’America col fiato sospeso, con una parte della sinistra speranzosa di trovarvi materia da impeachment, l’esito non è proprio di un immacolato candore, sia chiaro. Mentre scrivo, il Rapporto Mueller nella sua interezza è in poche mani: il contenuto integrale lo conoscono i vertici del Dipartimento di Giustizia. I quali, pur dovendo agire con la massima indipendenza ai sensi della Costituzione, sono pur sempre nominati dal presidente. Il Congresso (mentre scrivo) ancora non è riuscito a ottenere quel documento integrale. Ne conosciamo solo le «conclusioni» riassunte appunto da un ministro dell’Amministrazione Trump. È altamente improbabile che nelle carte integrali ci siano sorprese clamorose, tali da contraddire la sintesi ufficiale. Anche se il non pubblicare il Rapporto integrale continuerà ad alimentare teorie del complotto, dietrologie, «verità alternative» e leggende varie.

Di certo la democrazia americana ne esce più malconcia che mai, sfiduciata, intrappolata nelle delegittimazioni reciproche. Il presidente e il suo partito possono celebrare la fine della «caccia alle streghe». Secondo l’autorevole e stimato Robert Mueller (ex-magistrato, ex-capo dell’Fbi) che ha condotto le indagini, né Trump né la cerchia dei suoi collaboratori hanno attivamente congiurato col governo russo per manipolare l’elezione presidenziale del 2016. La barra era molto alta, su questo sospetto di collusione. Non bastava dimostrare – com’è stato fatto – che ci fu un intervento russo per danneggiare Hillary Clinton. Occorreva dimostrare la complicità attiva, il do ut des. Quale contropartita ha ottenuto Putin dalla vittoria del «suo» candidato?

Le relazioni tra Washington e Mosca non sono migliorate dai tempi di Barack Obama. Le sanzioni Usa contro la Russia rimangono. Vi si è aggiunta la sospensione di un trattato sulla limitazione degli arsenali nucleari. Dunque Putin non ha incassato nulla, almeno in apparenza.

L’altro possibile reato da impeachment è «l’ostruzione alla giustizia». Qui la conclusione di Mueller è più ambigua: «mancano le prove» che Trump abbia sabotato l’azione del super-magistrato. A rigore l’inchiesta dovrebbe proseguire su questo terreno, ma affidata al Dipartimento di Giustizia cioè al ministro William Barr nominato dallo stesso Trump.

Prima ancora che venisse consegnato il Rapporto Mueller, molti americani avevano già deciso cosa doveva contenere. I democratici erano determinati a darne una lettura colpevolista, i repubblicani quella opposta. Questa è la vera patologia che corrode la qualità della democrazia americana, e non nasce con Trump. La cerchia del malaffare di cui questo presidente si circondò per scalare la Casa Bianca, e che Mueller ha già ripulito cacciando un po’ di lestofanti in galera, è solo la risultante. 

Il vero successo di Putin non fu tanto quello di influenzare nel 2016 qualche fascia marginale di elettori, bensì di capire che costoro non aspettavano di meglio: volevano essere confermati nella loro delegittimazione dell’avversario, quindi nella loro sostanziale sfiducia verso le regole del gioco democratiche. Putin non ha installato un «candidato manciuriano» alla Casa Bianca, un docile servitore degli interessi di Mosca. Però ha fatto progredire un’equivalenza che corrode l’intero Occidente: l’idea che tutti i sistemi politici sono marci fino al midollo, e dunque non c’è tanta differenza tra il nostro Stato di diritto, la «democratura» putiniana, l’autocrazia di Xi Jinping. Con l’autostima ridotta ai minimi storici, l’Occidente è sempre meno temibile per gli uomini forti che governano le potenze rivali.

Questa disaffezione dalla liberaldemocrazia è un processo lento, viene da lontano: come minimo bisogna risalire all’elezione «rubata» di George W. Bush e ai dubbi profondi che seminò sull’onestà del sistema. O forse più indietro ancora: la vicenda dell’impeachment tentato contro Bill Clinton.

Perciò l’attesa messianica del Rapporto Mueller come un evento liberatore, una catarsi, era viziata fin dall’inizio: ciascuna delle due Americhe ha già precostituito la lettura degli eventi. 

La realtà – quella che dovrebbe uscire dall’onesto lavoro di un inquirente all’antica, professionale e non-partisan – è secondaria, manipolabile nel gioco delle «interpretazioni». L’assedio a Trump non finisce. La Camera dei deputati, a maggioranza democratica, ha già avviato le sue indagini su molti terreni, dalle tasse del presidente ai suoi business opachi. La magistratura ordinaria si è svegliata; dopo decenni di distrazione a dir poco sospetta, si è accorta che c’era del marcio a New York, all’ombra dei grattacieli costruiti dal tycoon con esenzioni fiscali e donazioni ai politici di turno (molti dei quali, però, sono democratici). Per molti americani, sentire che «non ci sono prove che il presidente sia un criminale», non è sufficiente per ritrovare fiducia.

Volendo trovare a tutti i costi qualcosa di positivo nella catastrofe io direi questo: mi sono un po’ riconciliato col «New York Times». Ero cresciuto da ragazzo nell’ammirazione del giornalismo anglosassone: la sua indipendenza, serietà, sobrietà; gli investimenti costosi nel «fact-checking» (verifica dei fatti) delle redazioni. L’ho visto degenerare sotto i miei occhi, con sgomento. Scusate se sono brutale: si è «italianizzato». Certo una parte della colpa è dei media di destra, a cominciare dalla televisione Fox News di Rupert Murdoch, che si è distinta ai tempi di Barack Obama per una faziosità disgustosa, dando spazio agli attacchi più infami: per esempio, fu la cassa di risonanza della campagna che Trump lanciò molto prima di candidarsi, la calunnia su Obama nato in Kenya quindi ineleggibile perché africano.

E tuttavia, soprattutto nell’èra Trump, i media progressisti sono sprofondati a loro volta nella faziosità. Dalla Cnn al «New York Times» al «Washington Post», sono diventati strumenti di battaglia più che di informazione. Raramente, attingendo a queste fonti, riesci a capire un’America di provincia che ha votato e continua a sostenere questo presidente. Apri il «New York Times» e ogni giorno trovi quattro, cinque, sei editoriali contro di lui. Oltre a perdere credibilità e autorevolezza, un giornale fatto così diventa prevedibile, perfino noioso.

Lo shock dell’indagine conclusa da Mueller ha provocato almeno una coraggiosa autocritica. Ecco all’indomani dell’assoluzione di Trump uno dei commenti del «New York Times», a firma di un Premio Pulitzer, Brett Stephens: «È un disastro che i media si sono inflitti da soli, paragonabile a quello sulle armi di distruzione di massa (la bugia dell’Amministrazione Bush su Saddam Hussein a cui abboccarono in molti nel 2003, «New York Times» incluso, ndr). Ci impone un’autocritica approfondita. … Trump ha incassato un’importante vittoria su quelli che considera i suoi nemici politici, incluso questo giornale. Che lui ci sia riuscito per genialità o per fortuna, converrà che smettiamo di trattarlo da stupido. Questo è il momento, invece, di esaminare la nostra stupidità».

Onore alla trasparenza di cotanta autocritica. Oltre ai media, anche una parte della sinistra americana è sotto shock. Si era illusa – e tutto ciò suona orrendamente familiare agli italiani – di regolare i conti con questo presidente imboccando una scorciatoia giudiziaria. Un bell’impeachment per liquidare il mascalzone, e non se ne parli più. In Europa poi, vista la generale ignoranza sulle cose americane, mi capitò per mesi d’incontrare persone che l’impeachment lo davano quasi per scontato. Ma fin dall’inizio qualche problemino era evidente. Non c’è mai stato un solo impeachment andato in porto, non uno in due secoli. Non solo perché ci vuole una maggioranza di due terzi al Senato, ma anche perché i reati da interdizione di un presidente sono pochi e difficili da dimostrare. 

«Collusione» con una potenza straniera, è uno di questi, appunto. Ma bisogna ricordarsi il clima del 2016: Putin odiava Hillary Clinton ma come tutti anche lui non pensava che avrebbe perso. Né Trump credeva di vincere. Immaginarlo mentre a tavolino negozia con Putin («tu mi fai vincere, io ti do questo e quello») è fantapolitica scadente. Una vecchia volpe della politica come Nancy Pelosi, la presidente della Camera e la più alta carica del partito democratico, lo disse fin dall’inizio: non voglio parlare d’impeachment. Se le chance di rielezione di Trump sono leggermente risalite, lo si deve a un’opposizione presuntuosa e autoreferenziale: si è auto-convinta delle favole che si raccontava.