Trenta milioni di persone, molte delle quali armate, moltissime delle quali impoveritesi fino a fare la fame, sedute su una polveriera pronta ad esplodere. Questo è oggi quel che fu il «Venezuela Saudita», fino a qualche decennio fa uno dei paesi più prosperi dell’America latina, con un suolo straordinariamente ricco non solo dei maggiori giacimenti di petrolio del continente ma anche di gas, di oro, di minerali preziosi.
Caracas in questi giorni è teatro di un braccio di ferro drammatico tra il regime presieduto da Nicolás Maduro – erede politico del defunto Hugo Chávez, senza nemmeno l’ombra del carisma né dell’abilità del predecessore – e un’opposizione di solito litigiosissima, per la prima volta dopo vent’anni resuscitata da una linea comune, molto sostenuta internazionalmente, che tenta con oceaniche manifestazioni popolari di dare una spallata al governo.Se non ce la farà, soprattutto se non ci riuscirà entro breve tempo, il rischio di una repressione feroce e, peggio, quello di una guerra civile, è molto alto. Con la quantità d’armi in circolazione in Venezuela, nel caso di un conflitto di tutti contro tutti basterebbero poche ore a lasciare a terra centinaia di morti.
Niente è scontato nell’esito della prova di forza contro il regime chavista al crepuscolo, ma non ancora tramontato. E quindi capace di pericolosissimi colpi di coda. Maduro è in mano a una casta militare che ha vuotato le casse statali, ipotecato le future estrazioni di petrolio per garantirsi inezioni di denaro fresco dalla Cina, senza esser capace di lasciare nemmeno gli spiccioli necessari a garantire il rifornimento di garze e siringhe agli ospedali. Anche l’aspirina e il paracetamolo si trovano solo di contrabbando. Scaffali semivuoti nei negozi. Valore della moneta polverizzato da un’inflazione che cresce all’incredibile ritmo quotidiano del 4 per cento. Economia dollarizzata di fatto, prodotti essenziali trovabili solo al mercato nero.
Ci sono oggi in Venezuela due presidenti e due parlamenti. Anche due diplomazie informali, l’una contro l’altra armata. La lunga crisi venezuelana ha avuto un’accelerazione il 23 gennaio, quando una manifestazione popolare contro il governo Maduro è terminata con l’autoproclamazione come presidente ad interim, alla guida della transizione in attesa della convocazione di libera elezioni, di Juan Guaidó, trentacinquenne presidente dell’Assemblea nazionale, il parlamento esautorato dal regime che l’ha sostituito con una costituente eletta in votazioni irregolari.
Maduro gode della protezione dei vertici delle forze armate. Guaidó no. E questo è il principale problema dell’opposizione che conta di poter vincere le prossime elezioni presidenziali qualora Maduro si decidesse a convocarle. Sono i militari che fanno la differenza in questo conflitto. Chi ha il loro appoggio si prende il Paese.
Le prime ore dopo l’autoproclamazione di Guaidó il silenzio delle forze armate ha lasciato sperare ai più ottimisti tra gli oppositori che l’immediata copertura di Washington al giovane presidente del parlamento – e l’ipotesi remota, ma lasciata circolare, di un intervento statunitense – fossero state sufficienti a incrinare la protezione garantita degli alti comandi al regime. Invece, dopo una tesissima attesa, il ministro della Difesa Vladimir Padrino, da dieci anni uno dei più potenti esponenti del regime, s’è presentato in tv attorniato dai comandi delle forze armate e ha ripetuto frasi ascoltate già decine di volte: «Da molto tempo si sta preparando un volgare colpo di Stato». «Questo piano è arrivato ora a livelli di altissima pericolosità». Con un avvertimento: «Le Forze armate non accetteranno mai un presidente imposto. Un signore che si autoproclama presidente è un fatto gravissimo. Difenderemo la Costituzione».
Come già avvenuto molte altre volte il capo dei militari ha paragonato il clima interno e le pressioni internazionali su Maduro alle «ore drammatiche del tentato colpo di Stato contro Hugo Chávez nel 2002». La denuncia del tentato golpe manovrato da forze esterne, l’evocazione delle ingerenze statunitensi e colombiane, indipendentemente dal sostegno realmente dato sia dall’amministrazione Trump che dall’entourage dell’ex presidente colombiano Uribe al piano dell’opposizione (e nonostante la diffidenza che questo crea in quella ampia parte della popolazione stanca di Maduro, ma timorosa che i suoi avversari dipendano dalla estrema destra statunitense o colombiana) è un copione che si ripete uguale da anni e che finora ha sempre funzionato per puntellare il regime.
L’allineamento degli alti comandi militari è ciò che ha salvato sia Chávez sia Maduro dalle rivolte di piazza.
Per mantenere le forze armate fedeli, il regime ha coperto i loro capi di soldi, ha messo nello loro mani le chiavi della cassa statale.
Tutto ciò che genera entrate in dollari in Venezuela, come a Cuba, è in mano a generali. Una delle maggiori fonti di profitti illeciti sta nel sovrapprezzo che molti di loro incassano gestendo in totale opacità gli approvigionamenti statali, che nessuno controlla. Fanno pagare il doppio o il triplo del reale prezzo e si intascano la differenza. Lì sta anche la principale fonte di guadagno della «boliborghesia», la borghesia bolivariana la classe sociale cresciuta all’ombra della rivoluzione. L’impresa pubblica del petrolio, Pdvsa, ha una piccola rosa di imprese che si occupa del rifornimento di materiali e macchinari. Sono private e comprano all’estero, in dollari. Chi gestisce gli acquisti, e si tratta sempre di militari, gonfia i prezzi a piacimento.
Altra gigantesca fonte di entrate per i generali del regime è stata la compravendita controllata di dollari. I militari hanno controllato per anni le subaste di dollari. Ormai le imprese private sono quasi tutte fallite o sono state comunque costrette a chiudere, ma per anni, quando le aziende private avevano bisogno di dollari, essendo rigidamente controllato il mercato di valuta, facevano un’offerta e un fantomatico ente governativo, sempre in mano ai militari, decideva a chi vendere e a chi no attraverso una subasta pubblica e contemporaneamente segreta. Un sistema di regolazione del valore nel mercato parallelo che per molti anni è stato una fabbrica di soldi per i generali che ne erano a capo, un formidabile sistema di riciclaggio (di soldi dei narcos essenzialmente) di corruzione e di pressione sulle imprese private.
Questo gigantesco meccanismo di corruzione ha fatto accumulare loro una tale quantità di ricchezza e li ha portati a compiere una tale quantità di reati, molti dei qual vincolati al narcotraffico, perseguibili anche all’estero e al centro di inchieste infatti della Dea statunitense, che è difficile capire cosa può essere offerto ai vertici delle forze armate per convincerli a lasciar cadere il governo.
La carta tentata dall’opposizione è quella di offrire una amnistia. Buona per allettare i quadri medi. Ma forse insufficiente a convincere al voltafaccia quelli che rischiano di finire condannati per riciclaggio e narcotraffico nelle galere statunitensi.
Cosa puoi offrire che per loro valga la pena, anche facendo pressione dall’estero, ai generali che hanno ridotto il Venezuela a un narco-Stato? L’impunità? Ce l’hanno già, comandano loro anche sui giudici in Venezuela. Li puoi forse prendere per fame? Puoi al massimo togliere loro margini di profitto attraverso il blocco economico alle attività produttive che controllano, misura in parte prevista dalle nuove sanzioni americane. Ma quanto tempo occorre perché si vedano gli effetti? E in quali condizioni si riduce, in attesa che vengano fiaccati loro, il resto della popolazione?
In attesa di farsi breccia tra gli alti gradi, l’opposizione sta tentando di tirare dalla sua parte le truppe. «Soldato, non sparare sul tuo popolo!» è l’appello lanciato da Guaidó. Ci sono state defezioni negli ultimi mesi di soldati in servizio, fughe silenziose, soprattutto di militari impiegati nei pattugliamenti lungo il confine. Molti di loro in realtà non disertano perché sono contro il regime, ma per fame. Questo succede soprattutto negli Stati periferici, nel Venezuela profondo, dove ci si arruola perché è l’unica possibilità di mangiare. Con lo sprofondare dell’economia, all’ora del pasto arriva una scodella di acqua sporca e si scappa. Negli ultimi giorni sono rimbalzate voci, impossibili da verificare, su gruppi di militari che si sarebbero rifiutati di uscire a reprimere le manifestazioni contro il governo e i saccheggi.
L’esercito venezuelano è un esercito popolare, i bassi ranghi soffrono privazioni pesanti. Non hanno intenzione di sparare sui cortei di civili. Una loro rivolta non è impossibile. Ma Maduro non è del tutto idiota e a reprimere le manifestazioni antiregime per ora non manda l’esercito, ma i corpi d’elite della polizia speciale.