La democrazia americana non è stata mai fondata principalmente sulle regole, ma sul senso comune. Sui mores. I costumi, i riflessi condizionati che tengono assieme la comunità nazionale e vengono succhiati con il latte fin dall’infanzia. Costumi e abitudini di matrice tipicamente Wasp, il ceppo bianco-anglosassone (germanico) e protestante che domina gli Stati Uniti fin dalla nascita, che oggi si sente minacciato dall’ascesa delle minoranze ed è profondamente diviso socialmente e culturalmente. Gli obblighi reciproci, con relativi gentlemen’s agreements, permettevano ad esempio di assorbire senza troppi danni l’assurdo sistema elettorale che battezza ogni quattro anni il presidente. Il perdente, di norma, «concedeva» la vittoria del rivale. Certo non sono mancate le eccezioni. Ma lo scontro Trump-Biden è novità assoluta. Perché rivela come la fine (provvisoria?) dei mores metta in discussione il funzionamento e quindi la legittimità stessa dello Stato.
Conviene qui un passo indietro. Siamo abituati a considerare la democrazia come marchio dell’America. Fattore decisivo del suo soft power, o meglio della sua influenza nel mondo. Certamente in Occidente. Vanamente però cercheremmo nella costituzione (1789) o nella dichiarazione d’indipendenza (1776), qualsiasi riferimento alla democrazia. I padri fondatori temevano infatti il popolo, inteso più come minaccia che come risorsa. Meglio, ne temevano le derive che oggi sarebbero bollate «populiste». Insomma, più plebe a rischio di manipolazione demagogica che famiglia di cittadini, alla francese.
Il principio primo della comunità nata emancipandosi dalla Corona britannica era, e resta, la protezione della libertà individuale, nel senso più ampio e meno regolato del termine. Lo Stato, ovvero anzitutto il governo federale, è considerato più un problema, per la sua natura spiccatamente invasiva, che una garanzia della libertà dei cittadini. Gli Stati federati, poi, mantengono poteri e identità che rendono piuttosto lasco il federalismo a stelle e strisce. A rischio di separatismi, per ora impensabili – ma ormai siamo abituati ad essere sopraffatti da eventi assolutamente imponderabili fino a un minuto prima che accadano.
Si è scritto, detto e ripetuto che il Congresso è il «tempio della democrazia». Bene: ma allora perché gli assalitori che il giorno dell’Epifania, sobillati dal presidente in carica, l’hanno devastato e umiliato trovano la comprensione di ampie fasce dell’opinione pubblica? E perché la sicurezza intorno al Campidoglio è stata così negligente, se non collaborativa con un gruppo di invasori armati? La risposta sta anche nei sondaggi Gallup che rivelano il grado di adesione degli americani alle loro istituzioni. Gli ultimi rilevamenti, precedenti al 6 gennaio, stabilivano che solo il 4% della popolazione esprime «piena adesione» al «tempio della democrazia», ovvero al Congresso. Del presidente (allora Trump, ma la domanda era sulla carica non sull’uomo), solo il 24%; il 12% crede ai giornali, il 7% ai media in Rete. Le due istituzioni preferite sono pertinenti alla forza: polizia (29%) e soprattutto Forze armate (45%). Dunque le strutture che avrebbero dovuto proteggere l’impopolarissimo Congresso e non lo hanno fatto.
Oggi l’America è percorsa da una crisi che si manifesta come tribalizzazione identitaria, sfilacciamento delle legature sociali e della fiducia nello Stato, proliferazione della violenza. Se consideriamo che di fatto negli Stati Uniti non vige il principio primo su cui si fondano di norma le istituzioni pubbliche, ossia il monopolio della violenza, e che quando c’è una crisi sanitaria come quella del Covid-19 la gente più che alle farmacie corre alle armerie temendo disordini, si capisce perché il grado di allarme a Washington e dintorni sia massimo. Espresso plasticamente dalla telefonata della speaker (presidente) della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, democratica ferocemente anti-trumpiana, al capo delle Forze armate perché vigilasse sui codici nucleari, nel caso al presidente venisse in mente di scatenare la guerra atomica.
I prossimi mesi e anni ci diranno se il colosso a stelle e strisce, che resta la potenza Numero Uno e ha a disposizione risorse formidabili, saprà ricucire le ferite e ripresentarsi in futuro sulla scena internazionale con un vestito meno macchiato, con un marchio di nuovo credibile, invidiato. La tempesta che sconvolge l’America è comunque destinata a durare. Nel momento in cui le antiche certezze crollano, forse questa è l’unica su cui si può ragionevolmente scommettere. Ma è chiaro che della crisi domestica risente e risentirà la presa della superpotenza sul suo informale ma potente impero, diffuso su tutti i continenti, inquadrato e stabilizzato in Europa grazie al sistema euroatlantico, di fatto comprendente anche Stati neutrali come Svizzera, Svezia, Finlandia. Le crisi dell’impero si misurano al centro, ma si riflettono subito in periferia. E talvolta il centro può essere tentato dallo scaricarla non solo sui nemici ma anche sui soci.
Vecchi costumi, antiche certezze
La tempesta abbattutasi su Capitol Hill sta mettendo in discussione il funzionamento e quindi la legittimità stessa dello Stato fondato sul senso comune più che sulle regole
/ 18.01.2021
di Lucio Caracciolo
di Lucio Caracciolo