Valanga democratica a Hong Kong. E Pechino?

Ex colonia – I leader cinesi devono fare i conti con un risultato elettorale inaspettato. Fino alla fine hanno portato avanti la propria tesi secondo cui il movimento di protesta è minoritario e manipolato dall’estero
/ 02.12.2019
di Beniamino Natale

Con una percentuale di consensi che sfiora il 90%, i candidati democratici hanno stravinto le elezioni per i «district council» di Hong Kong. I «council» sono organismi consultivi che si occupano soprattutto di problemi locali come il traffico e la raccolta di rifiuti ma dopo quasi sei mesi di manifestazioni, di violenze, di repressione e di arresti, le elezioni di domenica 24 novembre si sono trasformate in un referendum sulle proteste.

I risultati parlano da soli: su un totale di 452 seggi in ballo, i democratici ne hanno vinti 347, cioè il 76,8%; gli alleati del governo di Pechino ne hanno ottenuti 60 (13,3%) mentre i rimanenti 45 (10%), sono andati a candidati «indipendenti», molti dei quali sono sostenitori del fronte democratico. Contando questi ultimi, i deputati democratici superano l’80% dei seggi e, secondo alcuni calcoli, arriverebbero al 90%. Dei 18 «council» del territorio, le forze democratiche ne controllano 17. Da sottolineare che le elezioni dei «council» sono le sole che nel territorio si svolgono con il suffragio universale.

A determinare questo risultato è stata una massiccia affluenza alle urne dei giovani, che in precedenza non erano apparsi interessati al processo politico: la percentuale dei votanti, che nelle passate consultazioni non aveva superato il 47% è stata del 71%.

Il volto più noto del movimento di Hong Kong per la democrazia, il 23enne Joshua Wong, non si è potuto presentare perché accusato dal governo di essere un «indipendentista», ma il candidato da lui stesso scelto per sostituirlo, il 40enne Kevin Lam ha surclassato la sua avversaria filo-Pechino. Sono risultati eletti molti altri leader sia dell’attuale movimento di protesta che di quello del 2014.

In un commento pubblicato dal «New York Times» Benny Lai – un professore che è stato tra i promotori del movimento del 2014 e che da allora ha trascorso parecchi mesi in prigione – afferma che le elezioni di domenica scorsa sono per il territorio «le più importanti di sempre». Lai ricorda che, oltre al loro ruolo consultivo, i «disctrict council» partecipano alla selezione dei deputati del Parlamento, chiamato Legislative Council o LegCo e alla scelta dei 1200 membri del comitato che ogni cinque anni nomina il Chief Executive, ovvero il capo del governo del territorio. Hong Kong è oggi una Special Administrative Region (SAR) della Cina e gode di una larga autonomia e di un sistema semi-democratico, mentre la «madrepatria» rimane governata da un regime monopartitico e autoritario.

In poche parole, Benny Tai afferma con forza che degli spazi di democrazia a Hong Kong ci sono e che vanno sfruttati in pieno. In questo senso, se i giovani protestatari abbandoneranno la politica di scontro fisico con la polizia – il braccio armato del governo locale e, indirettamente, di Pechino – le elezioni potrebbero veramente aver segnato una svolta nella storia dell’ex-colonia britannica.

Il movimento di protesta di quest’anno è nato per bloccare il progetto di legge che avrebbe reso possibile l’estradizione in Cina delle persone condannate ad Hong Kong. Dopo la violenta reazione della polizia – che ha più volte usato le armi da fuoco contro i manifestanti, in molti casi disarmati e che ha spesso fatto ricorso all’intimidazione contro cittadini pacifici – le sue richieste si sono allargate. In sostanza, i democratici chiedono una credibile inchiesta sulle violenze poliziesche e una decisa accelerazione del cammino verso l’istituzione del suffragio universale. In quest’ultima richiesta, certamente la più importante, non c’è niente di sovversivo – al contrario di quanto può apparire a prima vista.

La Gran Bretagna, della quale Hong Kong era una colonia, e la Cina raggiunsero nel 1984 un accordo per il passaggio di poteri, che avvenne poi nel 1997. Sulla base di quell’accordo fu più tardi elaborata la Basic Law, vale a dire la Costituzione del territorio. La Basic Law prevede che Hong Kong mantenga per 50 anni a partire dal 1997 le sue istituzioni democratiche. Il sistema elettorale è estremamente macchinoso e riflette i timori (o le paranoie?) dei dirigenti cinesi. Ma afferma con chiarezza che il suo «fine ultimo» è l’elezione a suffragio universale sia del LegCo che del Chief Executive.

I media cinesi, tutti controllati dal Partito Comunista al potere e lo stesso ministro degli Esteri Wang Yi hanno accusato le immancabili «oscure forze internazionali» di aver promosso il movimento di protesta e hanno sostenuto che il risultato è stato ottenuto «con la violenza e l’intimidazione», dimostrando quanto poco i dirigenti di Pechino capiscano sia del funzionamento della democrazia, che delle opinioni e dei sentimenti dei cittadini di Hong Kong. Il risultato delle elezioni li mette di fronte a un bivio: o mantenere le promesse che loro stessi hanno fatto o proseguire nella via della repressione e dell’autoritarismo che purtroppo sembra essere quella preferita dalla Cina del presidente –  e dittatore – Xi Jinping.