L’apertura della Corea del nord al dialogo con il Sud – un’apertura arrivata all’ultimo momento, giusto in tempo per le Olimpiadi invernali che si stanno svolgendo a Pyeongchang, che si trova solo a un’ottantina di chilometri a sud del trentottesimo parallelo – ha riacceso il dibattito su una possibile riunificazione della penisola. Le due Coree hanno sfilato alla cerimonia d’apertura dei Giochi sotto la stessa bandiera, un fondo bianco e il profilo dell’intera Corea in blu, ma non tutti i coreani sono convinti che la strategia d’apertura fortemente sostenuta dal presidente sudcoreano Moon Jae-in porterà a un riavvicinamento sincero tra Seul e Pyongyang.
Secondo il primo ministro giapponese Shinzo Abe l’arrivo della numerosa delegazione nordcoreana in Corea del Sud, con ufficiali di altissimo livello, rappresenta la volontà del leader Kim Jong-un di trasformare le Olimpiadi sudcoreane nelle Olimpiadi nordcoreane. Del resto, i Giochi sono una vetrina internazionale imperdibile per un Paese piegato dalle sanzioni economiche e dall’isolamento diplomatico. Ma anche tra i sudcoreani cresce l’insofferenza.
Il primo gruppo di cittadini nordcoreani ad arrivare al Villaggio olimpico è stato, già qualche settimana fa, quello della squadra femminile di hockey, scelta dal Comitato olimpico internazionale per creare la nazionale della Corea unita. Un simbolo più politico che sportivo. E infatti i tifosi sudcoreani non hanno preso bene la decisione di eliminare dalla squadra alcune atlete della Corea del sud per inserirne altrettante della Corea del nord durante ogni match. Il commissario tecnico della nazionale di Seul, Sarah Murray, quando ha saputo che in poche settimane avrebbe dovuto creare un team nuovo di zecca per gareggiare alle Olimpiadi, ha manifestato pubblicamente la sua preoccupazione. Alle proteste dei tifosi sudcoreani, che chiedevano di non confondere la politica internazionale con il duro lavoro delle sportive, aveva perfino risposto il primo ministro di Seul, Lee Nak-yeon, con una frase a dir poco infelice: «Non è il caso di lamentarsi, tanto nessuna delle due squadre aveva qualche possibilità di arrivare a medaglia». Poi si è dovuto scusare. Ma se la diplomazia è più importante dello sport, anche il ct Murray è dovuta tornare sui suoi passi, si è chiusa nel Villaggio olimpico con la dozzina di atlete arrivate dal nord, e ha scelto le migliori.
Quelle per l’hockey non sono le sole manifestazioni di protesta avvenute in Corea del sud in questi giorni. Il 6 febbraio scorso un traghetto nordcoreano è attraccato al porto di Donghae, sulla costa est, in territorio sudcoreano. A bordo c’erano i 140 membri dell’orchestra invitata a partecipare agli eventi collaterali nel periodo delle Olimpiadi. Non succedeva da anni che una nave nordcoreana arrivasse al Sud, ed è stato possibile solo perché Seul, proprio per facilitare la presenza dei nordcoreani ai Giochi, ha momentaneamente sospeso alcune sanzioni. Sin dal 2010 esiste un divieto assoluto per tutte le navi del Nord di entrare nelle acque territoriali del Sud – divieto posto in essere da Seul dopo l’affondamento da parte di Pyongyang della nave corvetta Cheonan, che uccise 46 marinai. Giorni fa, ad aspettare al porto la delegazione del nord, c’erano vari gruppi conservatori, che sventolavano bandiere sudcoreane e americane, qualcuno la bandiera nordcoreana con una croce nera sopra. Prima di avere l’autorizzazione a sbarcare, la delegazione ha dovuto attendere il mattino seguente, trascorrendo la notte sulla nave.
Il problema non è solo sportivo, ma anche di reale e sincera apertura dei singoli nordcoreani con il resto del mondo. Nel Villaggio olimpico il gruppo di giornalisti del Nord che segue le varie delegazioni, per esempio, è vestito con gli abiti tradizionali nordcoreani e non rivolge la parola a nessuno. Così come le atlete dell’hockey, che secondo varie testimonianze sono «stupite e sorprese» dalla quantità di cibo che viene servito loro. Secondo i vari testimoni, ogni gruppo di atleti è seguito passo passo da un «manager», cioè un membro dell’Ufficio di sicurezza di Pyongyang, che controlla che nessuno faccia dichiarazioni alla stampa non programmate, ma soprattutto che nessuno abbia il coraggio di disertare.
Per i coreani del sud, così come per il resto del mondo, questo atteggiamento risulta molto più simile a 1984 di George Orwell che alla vita contemporanea, e rende praticamente impossibile una reale comunicazione e comprensione tra i due Paesi. È dal 1945 che le due Coree sono divise, ed è difficile anche solo immaginare un percorso inverso se non attraverso un lungo, faticoso processo di riavvicinamento in cui i nordcoreani sono la parte più a rischio. Dal 1988 in poi, l’anno in cui Seul ha ospitato per la prima volta le Olimpiadi estive, tutto è cambiato: la Corea del sud è diventata la quarta economia asiatica, è uno dei paesi più tecnologizzati al mondo, qui l’istruzione è ai massimi livelli, perfino la lingua si è evoluta. Molti anziani ricordano la Guerra di Corea del 1950-1953, hanno combattuto un conflitto sanguinoso e incomprensibile ai più, e capiscono l’importanza di una penisola unita. Ma i cosiddetti Millennial alla Corea del nord non ci pensano: è solo l’ennesimo ostacolo al successo del proprio Paese, i cui confini vanno dal trentottesimo parallelo in giù. Anche Kim Jong-un, nato a metà degli anni Ottanta e cresciuto per qualche tempo in Svizzera, non ha vissuto la guerra. Ma sa che l’unico modo per tenere in piedi un paese come la Corea del nord è chiuderlo a ogni influenza esterna. In questo senso le Olimpiadi invernali saranno una grande vetrina diplomatica, ma per i singoli nordcoreani niente più di una vacanza.