Il 23 agosto scorso Donald Trump ha sganciato una bomba diplomatica di notevole portata. Annunciando una revisione, l’ennesima, delle politiche americane in Afghanistan (che somigliano peraltro sempre più alla famosa tela di Penelope): l’ineffabile Donald, tenuto ormai a balia dai militari, smania per mostrare in qualche modo i muscoli virtuali di cui fa sfoggio su Twitter e su ogni mezzo di comunicazione possibile. Così annuncia un maggiore coinvolgimento nel pantano della guerra afghana, l’intenzione di essere sempre più d’aiuto a Kabul per la «sicurezza» interna (qualunque cosa questo voglia dire) e l’invio di ulteriori truppe sul campo. Contestualmente, bacchetta apertamente il Pakistan annunciando che l’America «non resterà ancora zitta a guardare il Pakistan che alloggia e sostiene organizzazioni terroristiche», che le cose devono assolutamente cambiare e che, per quanto riguarda Washington, cambieranno da subito. Fino a qui, tutto normale.
In senso che per i generali di Rawalpindi si tratta dell’ennesima replica più o meno riuscita di una politica americana vecchia ormai quanto la guerra afghana: fare ogni tanto la voce grossa con Islamabad minacciando ferro e fuoco, a partire dall’ormai celebre «we’ll bomb you back to Stone Age» indirizzato da George W. Bush a Musharraf, è ormai un classico dei rapporti tra i due Paesi. Dopo non succede nulla, ma intanto si rimescolano un po’ le carte e si assestano le posizioni dei giocatori. Donald Trump però è andato oltre, provocando un vero terremoto. Nel suo discorso ha difatti chiamato direttamente in causa l’India, auspicando un maggiore coinvolgimento di New Delhi in Afghanistan e dichiarando che «gli Stati Uniti svilupperanno ulteriormente la partnership strategica con l’India». Abbastanza per provocare un tracollo di bile al governo di Islamabad e ai generali di Rawalpindi, che hanno reagito in maniera diciamo scomposta fino ad auspicare di poter «prendere a schiaffi» Donald Trump. Perché un conto è continuare a giocare al solito vecchio gioco del bastone e della carota, con molte carote e pochissimi bastoni, un conto è vedere l’India diventare sempre più un alleato strategico di Washington.
Le linee della nuova politica estera americana nella regione si sono, secondo gli osservatori, definitivamente chiarite: e mirano a stabilizzare la situazione afghana con ogni mezzo a disposizione degli Stati Uniti, a stringere sempre più i legami con l’India, a sconfiggere i paradisi pakistani per jihadi e affini e a battere i jihadi tutti contrastando a quel punto la sempre crescente influenza della Cina, della Russia e dell’Iran sulla regione e anche sui jihadi suddetti. Perché bisogna ammettere che a questo punto il Pakistan non è l’unico a cercare di influenzare Taliban e compagnia bella facendo accordi che mirano a portare a Kabul un governo favorevole all’una o all’altra superpotenza. Le accuse dirette al Pakistan lasciano il tempo che trovano: gli americani sanno benissimo, come tutto il resto del mondo, che i generali cullano amorosamente terroristi di vario genere, e hanno sempre lasciato fare. Per Rawalpindi i terroristi, o almeno alcuni gruppi, sono un cosiddetto «assetto strategico» necessario soprattutto alla eterna guerra con l’India. A ogni pressione internazionale i pakistani reagiscono negando e stanno comunque trasformando molti gruppi di jihadi in partiti politici ufficiali in modo da dargli campo libero e renderli praticamente intoccabili.
Anche la minaccia di sanzioni non preoccupa più di tanto l’esercito e i servizi. Le sanzioni andrebbero a colpire prevalentemente la società civile, non certo l’esercito. Il sessantotto per cento circa degli armamenti pakistani arriva difatti dritto da Pechino, che come ormai sanno anche i sassi si è praticamente comprato il Pakistan con la scusa di portare sviluppo e soldi a palate costruendo il Corridoio Economico tra Cina e Pakistan. Senza contare che Islamabad possiede una vecchia ma sempre attuale arma di ricatto: l’unica via di terra per rifornire le truppe americane in Afghanistan passa per il Pakistan, ed è già stata adoperata in passato da Islamabad come mezzo di ritorsione quando Washington diventava troppo minacciosa. In realtà le dichiarazioni di Trump hanno un valore politico più che militare. E la guerra ai jihadi va letta in questa chiave: obiettivo principale di Washington non è tanto sconfiggere il terrorismo, quanto contrastare le influenze cinesi e russe nell’aria geopolitica e spuntare le armi dei giocatori in questione.
La crescente partnership con l’India deve essere considerata anzitutto dentro a una più ampia strategia volta a contrastare la Cina e le sue mire espansionistiche di natura commercial-militare, non solo in Asia Centrale ma anche nel South China Sea. E il Pakistan, ormai governato più o meno apertamente dai generali e trasformatosi in appendice economico-militare di Pechino, rischia di fare la triste fine del vaso di coccio rimanendo aggrappato a strategie vecchie e ormai dannose anzitutto per i suoi stessi cittadini.