Usa-Cina, la vera questione è Taiwan

Asia – Contemporaneamente al parziale disgelo fra le due Coree si riaccendono le minacce cinesi di riprendersi l’isola
/ 15.01.2018
di Lucio Caracciolo

C’è una regola quasi fissa nella geopolitica dell’Asia orientale: ciò che accade a Taiwan si riflette sulla Corea e viceversa. Le ultime settimane hanno portato al significativo riavvicinamento tra le due Coree, segnalato dalla riapertura di un dialogo pragmatico sulle Olimpiadi di Pyeongchang. Questo è il frutto di una doppia scelta. Anzitutto, quella sudcoreana di non cedere alle pressioni americane che sarebbero potute sfociare in una vera e propria guerra preventiva contro il Nord. Secondo, il successo tattico ottenuto da Kim Jong-un, che facendo leva proprio sull’opposizione sudcoreana alla guerra ha costretto almeno per ora Trump a rinviare ogni ipotesi bellica nella penisola divisa. Per la prima volta da oltre un anno, da quando cioè gli Stati Uniti hanno pubblicamente denunciato la capacità nordcoreana di attaccare con armi atomiche il territorio nazionale, l’opzione militare viene di fatto sospesa. Anche perché, di tanto in tanto, i coreani si ricordano di essere una nazione divisa in due e non solo due Stati ideologicamente e geopoliticamente rivali.

Contemporaneamente a questo parziale disgelo intercoreano, ecco riaprirsi d’improvviso la questione di Taiwan. Già da alcuni anni in Cina è avviato un pubblico dibattito sulla scelta strategica compiuta da Mao Zedong nel 1950, quando decise di appoggiare Kim Il-sung nella sua avventura di riconquista dell’intera penisola coreana, piuttosto che inseguire le truppe del Guomindang fuggite e arroccate a Taiwan per difendere l’ultimo lembo di quella che ancora oggi si definisce Repubblica di Cina. Evidentemente Mao pensava di poter regolare la questione formosana dopo che i suoi alleati nordcoreani avessero preso il controllo totale del loro Paese, di fatto però facendone ancora una volta uno Stato tributario dell’Impero del Centro. Errore grave. Non solo Kim Il-sung dovette arrestarsi al 38° parallelo, ma la Repubblica Popolare Cinese dovette fare i conti con la decisione americana di considerare Taiwan parte fondamentale della propria sfera di influenza in Asia.

Fino a ieri la discussione sull’intelligenza strategica o meno di Mao in quella fase era rimasta circoscritta a circoli accademici o mediatici. Oggi è diventata affare di Stato. Lo stesso Xi Jinping vi ha accennato nel corso del 19° Congresso del Partito, in cui ha fissato per il 2050 l’appuntamento con il «grande ringiovanimento della nazione cinese». Tesi che, nell’interpretazione dominante, significa che quella Cina dovrà essere riunita nei suoi confini nazionali. Si dovrà cioè dare sanzione pratica all’affermazione per ora propagandistica di Pechino per cui Taiwan altro non è che un’isola ribelle, da riportare prima o poi nel grembo della patria, cui appartiene.

Un autorevole studioso cinese, a capo di un importante think-tank governativo, già collaboratore di Xi Jinping quando questi guidava la scuola centrale del Partito comunista cinese, ha tratto dalle mezze frasi del presidente una sua tesi, recentemente pubblicata, secondo cui la Cina riconquisterà Taiwan entro il 2020. Con la forza. L’autore di questo scritto strategico si chiama Deng Yuwen e non ha peli sulla lingua. Secondo lui è inevitabile che entro quella data l’Esercito Popolare Cinese muova alla riconquista dell’arcipelago ribelle. Perché una scadenza così ravvicinata? Per almeno quattro ragioni. Primo, ogni anno che passa sull’isola si rafforza l’identità taiwanese e si disperde quella originaria cinese. La propaganda di Pechino non riesce a fare breccia nei cuori e nelle menti dei taiwanesi. Secondo, i partiti politici taiwanesi contano sempre meno e in particolare quelle forze che guardano con qualche simpatia a una futura riunificazione con la madrepatria si stanno indebolendo. Terzo, anche se il partito del Guomindang dovesse riconquistare il potere, oggi gestito da dirigenti inclini all’indipendentismo o quantomeno indisponibili alla riunificazione, il partito pro-cinese non avrebbe la forza di promuovere la riunificazione. Quarto, l’opinione pubblica nella Repubblica popolare cinese reclama il ritorno di Formosa a casa.

Si tratta evidentemente di un obiettivo improbabile, non fosse che per i rapporti di forza aereo-navali tra Cina e Stati Uniti e per la decisione con cui l’America ha sempre difeso l’indipendenza di Taiwan, pur essendosi accomodata alla formula della One China (Cina unica), che consente il riconoscimento reciproco e una convivenza competitiva tra Washington e Pechino. Ma non bisogna dimenticare che il presidente Xi Jinping è un idealista. Ed è profondamente convinto di dover portare a termine nei prossimi anni contemporaneamente la riunificazione della Cina e la sua affermazione come prima potenza mondiale. Per questo, come tutti gli idealisti, è disposto a correre rischi che razionalmente appaiono eccessivi.

Sul fronte americano, intanto, Trump sta stringendo i bulloni della sua strategia di contenimento della Cina. Alla Casa Bianca, ma anche al Congresso, si sta rafforzando il partito di coloro che vorrebbero tornare a agitare lo spettro delle «due Cine» per tenere sotto scacco le ambizioni di Xi Jinping. Già la famosa telefonata di Trump, prima di insediarsi alla Casa Bianca, alla leader di Taiwan segnalava questa tendenza, poi momentaneamente repressa. Oggi però l’ago della bilancia strategica americana pare di nuovo inclinare verso la sfida piuttosto che verso il compromesso con Pechino. Si annunciano barriere daziarie, miranti a soffocare la crescita dell’economia cinese, e allo stesso tempo si sollecitano i vicini della Cina a opporsi alla strategia delle nuove vie della seta. Progetto cui Xi Jinping ha legato il suo nome, che apparentemente mira a stringere commercialmente e infrastrutturalmente la Cina al resto dell’Eurasia e anche all’Africa, ma di fatto si offre come un vero e proprio movimento di contro-globalizzazione in salsa cinese.

La partita coreana e quella taiwanese si svolgono parallelamente e forse un giorno si incroceranno. È chiaro che un compromesso oppure una guerra in uno dei due teatri molto probabilmente comporterà un compromesso oppure una guerra anche nell’altro. Ma dal punto di vista sia cinese che americano fra le due questioni quella davvero decisiva è Taiwan. Perché lì si decide dell’unità o meno della Repubblica Popolare Cinese, idolo al quale il Partito comunista e in maniera particolarmente robusta il suo attuale leader si sacrificano quotidianamente.