Tira una brutta aria sull’economia mondiale e soprattutto sul commercio estero, ad ascoltare i massimi esperti: dal Fondo monetario in giù. Tutta colpa della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, nessuno sembra prendere sul serio l’ultima tregua. Salvo che i mercati finanziari Usa sprizzano ottimismo: come si spiega? Altri temi all’orizzonte: chi si candida a «sostituire la Cina» come piattaforma di produzione a basso costo? Quanto resta importante il mercato cinese? Si avvera o meno la «re-industrializzazione» dell’America promessa da Donald Trump? E quali conseguenze comincia ad avere per l’Europa il nuovo bi-polarismo, la logica della guerra fredda?
Recessione in vista, dunque. O forse no: dipende da chi ascoltiamo. Nei paesi sviluppati parliamo di recessione quando il Pil infila due trimestri consecutivi di segno negativo. A livello globale vige un criterio diverso, visto che i paesi emergenti hanno bisogno di crescere di più, il Fondo monetario internazionale decreta una «recessione mondiale» quando la crescita scende sotto il 2,5% annuo. Ci stiamo avvicinando, se sono esatte le previsioni del Fmi che ha rivisto al ribasso il suo scenario 2020, tagliando la stima di crescita dal 3,4% al 3%. La nuova direttrice del Fmi ha citato il poeta russo Alexander Pushkin: «La brezza autunnale sta già gelando la strada». Il colpevole del rallentamento lo indica la World Trade Organization (Wto): è il commercio mondiale che ha smesso di fare da motore trainante, quest’anno crescerà meno del Pil mondiale, appena l’1,2%.
È il mondo «post-globalizzazione» in cui dobbiamo attrezzarci a sopravvivere: nel trentennio che abbiamo alle spalle, la costante liberalizzazione degli scambi, le aperture delle frontiere, avevano consentito al commercio estero di essere la forza propulsiva della crescita. Tra le ricadute «aziendali» segnalo la sorte di FedEx, gigante mondiale della logistica, oggi in difficoltà proprio perché non ha visto venire la «seconda guerra fredda», quella che oppone Usa e Cina. Alcuni suoi concorrenti come Ups hanno scommesso sul mercato domestico e su Amazon, per adesso con risultati migliori.
In controtendenza con questi scenari macro-economici, i mercati finanziari non sembrano prevedere una recessione. Negli Stati Uniti l’indice azionario Standard&Poor’s 500 è in rialzo del 20% dall’inizio dell’anno; in rialzo pure le quotazioni dei bond. Questi rialzi «gemelli», che appaiano il mercato del reddito fisso e quello azionario, sono eventi rari: l’ultimo accadde nel 1995. In salita dall’inizio dell’anno anche il petrolio (+17%) e l’oro (+16%). Altro che recessione! C’è chi pensa che questi rincari siano l’ultima follia prima di un crac: lo hedge fund Lansdowne Partner parla di «prezzi dei bond idioti» e prevede un calo delle azioni tecnologiche. C’è chi attribuisce i rialzi alla politica monetaria che ha ripreso a gonfiare il mondo di liquidità. In questi giorni la Federal Reserve dovrebbe tagliare nuovamente i tassi; i rendimenti negativi su alcuni bond europei non rilanciano la crescita reale ma forse alimentano quella finanziaria.
Sul fronte delle guerre commerciali, Trump ha rinviato quell’aumento nei dazi che doveva scattare il 15 ottobre, e avrebbe portato dal 25% al 30% le tasse doganali su prodotti cinesi per un valore di 250 miliardi di dollari all’anno. Ha motivato il suo gesto col fatto che il governo cinese gli avrebbe promesso di acquistare dai 40 ai 50 miliardi di derrate agricole americane all’anno. Trump alimenta speranze di un accordo più sostanziale quando lui e il presidente cinese Xi Jinping s’incontreranno al summit Apec a Santiago del Cile (15-17 novembre). Per adesso mancano molti tasselli. Non è chiaro se Trump voglia sospendere anche i nuovi dazi del 15% fissati per dicembre e che colpirebbero altri 150 miliardi di beni cinesi all’anno. Tantomeno vi sono segnali che voglia togliere i dazi già in vigore su 360 miliardi annui d’importazioni.
E queste sono richieste qualificanti per i cinesi. I quali, a loro volta, avrebbero fatto delle concessioni molto generiche e poco verificabili su altri dossier cruciali: dalla politica valutaria ai trasferimenti «obbligati» di tecnologie (per le imprese che investono in Cina), alla tutela della proprietà intellettuale delle aziende straniere. Che Pechino aumenti le sue importazioni di prodotti agricoli, in fondo, più che una concessione a Trump è una necessità. L’epidemia di febbre suina ha devastato gli allevamenti cinesi; la Repubblica Popolare ha bisogno di aumentare gli acquisti dall’estero sia per la carne di maiale sia per i sostituti come manzo e agnello.
Altri terreni di frizione tra le due superpotenze sono politici. Il Congresso Usa minaccia sanzioni commerciali contro Hong Kong per la repressione delle proteste. E gli arresti di cittadini Usa in Cina diffondono il timore che stia diventando pericoloso viaggiare in quel Paese.
La promessa di Trump, «Make America Great Again», faceva sognare alla classe operaia americana un futuro di re-industrializzazione. I dazi dovrebbero riportare le fabbriche negli Stati Uniti, compensando gli svantaggi competitivi. Un dubbio viene suscitato dalla vertenza semi-conclusa alla General Motors. Gli aumenti salariali ci sono, ma per ottenerli il sindacato dei metalmeccanici (United Auto Workers) ha dovuto accettare chiusure di fabbriche tra cui un grosso impianto a Lordstown in Ohio. Problematico per Trump perché colpisce proprio quel Midwest che fu decisivo nell’elezione del 2016.
Trump ha preferito visitare un modello positivo in Texas: l’inaugurazione di una nuova fabbrica di borse Louis Vuitton. Era presente tutto lo stato maggiore di Lvmh dalla Francia, guidato dal fondatore e azionista del colosso della moda e del lusso, Bernard Arnault. Il presidente Usa era accompagnato dalla figlia Ivanka. Visto da Trump: Vuitton che produce in America è la prova vivente che si può invertire il flusso delle delocalizzazioni, re-industrializzare un paese ricco, con il giusto mix di sgravi fiscali, deregulation, e protezionismo.
In tema di guerra tecnologica: malgrado siano messe al bando dall’Amministrazione Trump perché sospettate di essere utilizzabili da Pechino a fini di spionaggio, miriadi di videocamere cinesi sono tuttora installate in zone strategiche, incluse molte basi militari americane; il fatto è che non esistono prodotti sostitutivi made in Usa.
Possiamo dunque «fare a meno della Cina»? Secondo uno studio del Credit Suisse, per la prima volta nella storia ci sono più ricchi in Cina che negli Stati Uniti. Cento milioni di cinesi appartengono alla fascia del 10% dei più ricchi nel mondo, contro 99 milioni di americani. Una notizia da collegare con il continuo aumento degli acquisti di prodotti di lusso: secondo una ricerca del gruppo Bain dal 2010 ad oggi gli acquirenti cinesi hanno raddoppiato il loro peso sul mercato mondiale del lusso, e oggi valgono un terzo di tutto il fatturato mondiale del settore. I ricchi cinesi non sembrano aver rallentato i loro acquisti in quest’epoca di pessimismo legato ai dazi (fa eccezione il mercato del lusso di Hong Kong, in pesante crisi per ovvie ragioni), né per effetto della campagna anti-corruzione di Xi Jinping. Non tutti i marchi occidentali del lusso ne beneficiano. Un’analisi dell’«Economist» sui bilanci del settore mette tra i vincitori Lvmh, tra i perdenti Hugo Boss, Prada, Tod’s.
Altre 20 aziende cinesi sono finite nella lista nera del Dipartimento del Commercio Usa e non potranno acquistare tecnologia made in Usa (hardware, software). Sono soprattutto aziende di punta in alcuni settori dell’intelligenza artificiale: biometrica e riconoscimento facciale, video-sorveglianza. Grande Fratello digitale, insomma. Questo embargo è la conseguenza di un allarme americano per il sorpasso cinese in alcune tecnologie strategiche. Può rallentare l’avanzata della Cina, ma può anche accelerarla, costringendola a diventare autosufficiente in alcuni componenti come i semiconduttori.
Che cosa fanno le multinazionali che vogliono attrezzarsi a sopravvivere nella «seconda guerra fredda»? Tra le strategie adottate c’è una revisione delle catene produttive e logistiche. Conviene produrre in Cina per il mercato cinese, ma non per rivendere su quello americano. Una ricerca della banca Standard Chartered indica che stanno migliorando i potenziali di crescita di molti paesi del sud-est asiatico – in cima Vietnam Indonesia Thailandia – e una delle ragioni è la loro appetibilità come mini-alternative alla Cina. Ci vuole tempo però perché raggiungano la stessa efficienza, per esempio nelle infrastrutture. Tra i beneficiati potrebbero esserci anche paesi africani come Etiopia Kenya e Costa d’Avorio. La «ridislocazione» del commercio globale continuerà, sostiene Standard Chartered, anche a prescindere da quel che accadrà nei rapporti Usa-Cina.
Intanto l’Italia è anch’essa una «posta in gioco» nella nuova contesa bi-polare tra Stati Uniti e Cina. I porti sono già parzialmente controllati dai cinesi (la Cosco ha il 49% di Voltri-Genova, in società con la danese Maersk). Ancora più vigorosa è l’avanzata dell’altra Asia: la Port Authority di Singapore rafforza il suo controllo sul sistema ligure, è l’azionista dei due terminal «solo container». È proprio una logica da guerra fredda quella che spinge ad accaparrarsi le banchine: una garanzia qualora in futuro dovessimo assistere a nuove forme di embargo, restrizioni, sanzioni destinate a colpire questa o quella potenza commerciale. Genova e Trieste saranno due prede ambite nella nuova guerra fredda, così come ai tempi della sfida Usa-Urss le «linee rosse» attraversarono Berlino, Vienna, Helsinki.