USA al tavolo con i talebani

Afghanistan – Tornata di colloqui a Doha con l’inviato americano Zalmay Khalilzad. Obiettivo: organizzare una conferenza di pace
/ 26.11.2018
di Francesca Marino

Secondo un articolo del «Wall Street Journal» uscito giorni fa, gli Stati Uniti stanno facendo pressione sul governo afghano perché le elezioni presidenziali, che si dovrebbero tenere ad aprile 2019, vengano rimandate. L’articolo, che cita indiscrezioni e commenti di personaggi di spicco legati a Kabul, ha suscitato un vero e proprio vespaio nell’area geopolitica ma ben poca sorpresa tra analisti e osservatori. La mossa degli USA, che appare in totale dispregio di tutto quanto strenuamente perseguito fino a questo momento da Washington e dall’occidente tutto –  il ritorno della democrazia in Afghanistan – farebbe parte di una strategia più ampia rivolta a chiudere finalmente e per sempre dopo diciassette anni, la guerra più lunga combattuta nei tempi moderni.

All’inviato speciale per l’Afghanistan Zalmay Khalilzad la Casa Bianca avrebbe dato difatti un mandato di soli sei mesi per sbrogliare una matassa che sembra ormai inestricabile. E Khalilzad non sta perdendo tempo. I talebani hanno dichiarato di avere incontrato l’inviato speciale USA il mese scorso, e che i colloqui sono stati «produttivi» nonostante non sia stata fissata una data per ulteriori colloqui. Washington non ha confermato, ma non ce n’è bisogno. Dietro le quinte, e dietro la campagna militare particolarmente aggressiva degli ultimi mesi dei talebani che tengono ormai in ostaggio più di metà del Paese, le cose si muovono a ritmo ormai vertiginoso. Think-thank e agenzie varie delle Nazioni Unite organizzano incontri più o meno riservati a ritmo serrato, gli uffici dei talebani in Qatar non sono mai stati tanto frequentati e l’ultimo meeting organizzato a Mosca si è rivelato fruttuoso nonostante gli Stati Uniti non sedessero ufficialmente al tavolo delle trattative e ufficialmente le parti in causa abbiano dichiarato che non ci sono stati progressi sostanziali.

Eppure, per i russi, si è trattato di un trionfo diplomatico che, come ha dichiarato il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, mira ad «aprire, attraverso gli sforzi congiunti di tutti, una nuova pagina nella storia afghana». A Mosca è andata una delegazione dei talebani ma non una del governo di Kabul, che ha inviato soltanto alcuni rappresentanti dell’High Peace Council, un’organizzazione non governativa accreditata però presso i talebani. Traduzione: anche i russi, che in settembre avevano rimandato il meeting proprio per la mancanza di rappresentanti ufficiali di Kabul, come gli americani hanno accettato le istanze dei jihadi: che si rifiutano da sempre di parlare con quello che definiscono il «governo fantoccio» di Ghani e Abdullah. I talebani hanno ottenuto un primo risultato, oltre a intavolare trattative senza condizioni preliminari, e cioè parlare direttamente con gli americani: che a questo punto vorrebbero concludere l’accordo affidando a un governo ad interim la gestione dell’Afghanistan per organizzare, nel frattempo, una conferenza di pace sul genere della conferenza di Bonn (che si è tenuta nel 2001, e poi nel 2011).

Alla conferenza parteciperebbero questa volta anche i talebani, e le elezioni dovrebbero quindi essere rimandate fino alla conclusione dell’auspicato accordo di pace. Cioè, fino al momento in cui i talebani stessi potrebbero ufficialmente rientrare sulla scena politica afghana e partecipare alle elezioni. Se poi, una volta che i talebani si siano reinsediati ufficialmente a Kabul, le elezioni si terranno davvero, è tutta un’altra storia ma a questo punto agli americani non sembra importare più di tanto. La volontà di Trump, ma anche di tutte le altre parti in gioco, di farla finita con una guerra infinita, è evidente ormai da mesi: perché se è vero che non ci sono ancora accordi sul ritiro delle truppe USA da Kabul e dintorni, è vero anche che la leadership talebana e l’ufficio in Qatar stanno serrando i ranghi e costituendo una vera e propria task-force in grado di trattare sia diplomaticamente sia con i militanti sul campo.

Cinque comandanti talebani rilasciati nel 2014 da Guantanamo in cambio di un ufficiale dell’esercito americano, si sono uniti all’ufficio di Doha. E il Pakistan, convinto probabilmente da cinesi e russi o in cambio di un trattamento di favore da parte dell’Fmi, si capirà in seguito, ha rilasciato mesi fa il Mullah Baradar e qualche giorno fa altri tre alti ranghi dei talebani afghani. La trattativa diplomatica con l’occidente, difatti, è solo parte del problema: perché i rappresentanti che siedono in Qatar non rappresentano in realtà tutte le forze in campo dalla parte di jihadi e combattenti vari e non è detto che, all’indomani dell’accordo, l’Afghanistan venga automaticamente pacificato. Anzi. Ormai le fazioni combattenti sono tante, troppe, e ubbidiscono a diversi padroni: la Russia, l’Iran, il Pakistan tanto per fare dei nomi. Padroni che spesso giocano su più tavoli, come il Pakistan, che finanzia sia i talebani afghani che qualche gruppo di loro oppositori. Non è detto che la pace tra alleati e talebani, una volta firmata, si riveli per gli afghani assenza di guerra.