Usa a Cina: «Così non si va avanti»

Trump da Xi – Per il presidente americano lo squilibrio economico è insostenibile
/ 13.11.2017
di Federico Rampini

Non solo Corea del Nord: la prima visita di Stato di Donald Trump in Cina ha riportato all’attenzione un altro tema rovente, è l’immenso squilibrio negli scambi tra le due superpotenze dell’economia globale. «500 miliardi di dollari annui – ha detto Trump – questo è l’avanzo commerciale della Cina nell’interscambio con noi. È eccessivo, state approfittando di noi». Aggiungendo, per deferenza verso il padrone di casa: «Io non ce l’ho con voi cinesi, fate i vostri interessi. La colpa è delle passate Amministrazioni Usa che non hanno difeso la nostra industria e i nostri lavoratori». La sua conclusione: così non possiamo andare avanti.

Xi Jinping gli ha risposto con una litania di statistiche, e luoghi comuni del liberismo occidentale. Cita l’immenso volume delle importazioni cinesi dal resto del mondo, oltre mille miliardi annui, a riprova che la crescita economica del gigante asiatico ha un effetto traino sulle altre nazioni. Vero: le ultime rilevazioni del Fondo monetario internazionale dicono che se la crescita mondiale è in accelerazione, la causa numero uno è la locomotiva cinese. Questo non toglie nulla alla gravità degli squilibri, particolarmente acuti con alcuni paesi occidentali. Alla fine Xi ha aggiunto i rituali impegni di riforme strutturali che rendano il mercato cinese più aperto (generalmente disattesi). Ha regalato all’ospite nuovi contratti per un valore immediato di 9 miliardi di dollari cioè una goccia nell’oceano del deficit americano. Ha evocato altri contratti per 250 miliardi ma si tratta di proiezioni decennali su accordi di là da venire.

Nel primo vero summit fra Trump e Xi era intuibile un ribaltamento di forze. Anche in Occidente si diffonde una narrazione: è Xi il più forte dei due, il leader che ha il pieno controllo di una superpotenza in ascesa e tesse nuove reti di alleanze planetarie. Trump è indebolito in casa, isolato in molte parti del mondo. Primo leader cinese dopo Mao ad avere «consacrato» la sua dottrina nella Costituzione, Xi teorizza che il modello autoritario e paternalista della sua governance garantisce stabilità, progetti di lungo periodo, mentre la liberaldemocrazia occidentale è il caos. Magnanime, cita la guerra del Peloponneso e la «trappola di Tucidide» per ammonire l’America a non cercare lo scontro: nella sua visione del mondo c’è posto anche per noi, è «win-win», tutti possono guadagnarci simultaneamente. Siamo già passati dal secolo americano al secolo cinese?

Xi ha un’economia che continua a crescere a ritmi annui superiori al 6%, l’occupazione cinese a quota 776 milioni ha sorpassato l’intera popolazione europea, è due volte quella americana. Non più solo competitività da bassi salari ma tanta ricerca, infrastrutture modernissime, eccellenze tecnologiche, economia digitale. Dalla ricchezza si estrae il soft power: già a Davos il presidente cinese si presentò come il difensore della globalizzazione, di un mondo aperto, una diga contro i protezionismi. Ha mantenuto l’adesione agli accordi di Parigi sul clima. Con la Nuova Via della Seta propone al resto del mondo un titanico progetto di infrastrutture per facilitare gli scambi: autostrade e ferrovie, porti e aeroporti, oleodotti, fibre ottiche. Finanzia costruzioni anche a casa degli altri, dall’Asia centrale all’Europa all’Africa.

Gli Stati Uniti non vanno sottovalutati, però. Restano ancora la prima economia mondiale e la crescita accelera al 3%, la piena occupazione è vicina, le Borse alle stelle. La forza militare Usa è ineguagliata, la Cina è ancora lontanissima dall’avere una rete di basi in quattro continenti o una capacità di proiezione su teatri di conflitti remoti. L’America ha raggiunto l’autosufficienza energetica e mantiene un vantaggio nell’innovazione tecnologica, nella capacità di attirare talenti.

La fragilità più evidente degli Stati Uniti è nella leadership: un presidente al 36% nei sondaggi, ha appena perso due test elettorali in Virginia e New Jersey. L’incapacità di venire a capo della minaccia nucleare in Corea del Nord segnala i limiti della potenza militare. Scandali a ripetizione, l’indagine del Russiagate, fanno già di questo presidente una «anatra zoppa». Se perdesse le legislative di mid-term tra un anno perfino l’impeachment diventerebbe meno fanta-politico.

Le fragilità di Xi sono meno apparenti ma esistono. Un debito pubblico superiore al 300% del Pil. Un sistema bancario opaco e malato di dirigismo. Un eccesso di capacità produttiva in troppi settori, costretti a esportare alimentando macro-squilibri commerciali col resto del mondo. Troppa concentrazione di potere personale in capo al leader massimo: è una forza che tradisce insicurezza, scarsa fiducia nella sua stessa nomenclatura. Così come la censura su Internet, sui social media, sulle tv e sui giornali. Nell’Asia vicina è palpabile il «bisogno di America» per controbilanciare l’espansionismo cinese: le tappe di Trump a Tokyo e Seul sono andate bene, proprio per questo. Il Giappone spinge per includere l’India («Indo-Pacifico») in un cordone di democrazie.

Trump ha intuito che la superpotenza economica cinese è una «tigre di carta» perché troppo dipendente dall’export, obbligata a riciclare i suoi immensi attivi in buoni del Tesoro Usa. Riecheggia critiche di sinistra sull’impoverimento da globalizzazione, sulle regole del gioco truccate a favore dei cinesi. Dumping, aiuti di Stato, furti di proprietà intellettuale: tutte le accuse di Trump sono fondate. Gli manca una proposta organica per riscrivere quelle regole.