Sono usciti semplicemente sfondando il cancello, a passo di marcia, già vestiti in mimetica e anfibi: il video dei mobilitati che hanno abbandonato il poligono di addestramento di Kazan ha fatto il giro della Rete russa, diventando lo spot di quelle microrivolte che sono in corso in tutto il Paese. In numerose caserme – da Belgorod al confine ucraino, a Ulan-Ude nella Siberia profonda – sono decine le proteste dei «mobiki», gli uomini russi mobilitati sul fronte per ordine di Vladimir Putin. A Rostov una delle reclute è fuggita dalla caserma minacciando di sparare ai suoi inseguitori. A Serpukhov, vicino a Mosca, i coscritti si sono ribellati dopo aver scoperto che la dispensa della caserma era piena di provviste mentre loro ricevevano un solo pasto al giorno.
I mobilitati dalla Yakutia hanno diffuso un video in cui si vedeva che dormivano sul pavimento di una caserma non riscaldata, nel Tatarstan è scoppiata una protesta delle mogli dei neo soldati, che venivano armati con Kalashnikov arrugginiti e vestiti con uniformi logore e totalmente inadatte all’inverno. In Chuvashia le autorità sono state costrette a rilasciare i riservisti dalle caserme per non rischiare una rivolta armata. A Elan, in un centro di addestramento, si sono verificate diverse morti di neomobilitati, e le famiglie sostengono che sui loro corpi erano visibili segni di percosse, nonostante le cause di morte ufficiali parlano di malattie improvvise o di intossicazione alcolica. Ma la protesta più spettacolare è stata appunto quella di Kazan, dove i mobilitati, infuriati dal rifiuto del comando di concedere loro una libera uscita per salutare le famiglie prima di partire per il fronte, hanno semplicemente sfondato i cancelli della caserma per uscire e non tornare più.
L’incubo del Cremlino ora è proprio questo: lo scontento non più di dissidenti isolati, ma di gruppi di militari armati. I «mobiki» sono in maggioranza sostenitori del regime putiniano, o comunque lontani da movimenti di protesta. Gli altri, i seguaci dell’opposizione, hanno in buona parte lasciato la Russia già all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, oppure alla fine di settembre, quando Putin ha proclamato la chiamata alle armi. Secondo i dati dei Paesi che hanno accolto questo grande esodo – Georgia, Kazakistan, Armenia, Turchia, Finlandia – si parla di almeno un milione di cittadini russi che hanno preferito scappare piuttosto che correre il rischio di finire in trincea nel Donbass. Non è casuale che il presidente russo e i suoi collaboratori abbiano a più riprese sottolineato che la mobilitazione sarebbe stata soltanto «parziale» e che non ci sarebbe stata una seconda ondata di coscrizione dopo il reclutamento di 300 mila riservisti. L’obiettivo è far tornare chi è partito (o si è imboscato in patria, magari in campagna) e tranquillizzare chi si stava preparando alla fuga. Indiscrezioni raccolte dal giornale d’opposizione in esilio «Meduza» parlano di un’imminente nuova chiamata alle armi, anche perché il tasso di mortalità tra i «mobiki», scaraventati al fronte spesso dopo pochi giorni di addestramento, è elevatissimo, e stime del ministero della Difesa parlerebbero di 100 mila reclute uccise o gravemente ferite entro la primavera.
Una prospettiva che spiega bene il motivo per il quale i numeri dei sondaggi si sono ribaltati in tre mesi: a luglio solo il 32% dei russi era favorevole a passare a un negoziato di pace, ora richiesto dal 55% degli interrogati, mentre i sostenitori della prosecuzione della guerra sono crollati dal 57% al 25%. I dati sarebbero stati raccolti, sempre secondo «Meduza», da un sondaggio riservato del Cremlino, e quindi si può ipotizzare che la situazione reale sia ancora più sfavorevole a Putin. La mobilitazione ha rotto quel patto che aveva stretto con il suo elettorato, al quale aveva promesso benessere, sicurezza paternalista e orgoglio nazionale. Il benessere è ormai un lontano ricordo e la prospettiva di dover combattere per l’orgoglio nazionale rischiando in prima persona ha reso la guerra in Ucraina la prima a non aver fatto crescere i consensi del leader russo.
Una delusione che non significa necessariamente il rifiuto delle ragioni della guerra: molti «mobiki» contestano più le modalità in cui si trovano costretti a combattere che i motivi dell’invasione dell’Ucraina. Il sociologo Grigory Yudin non vede per ora il potenziale di una rivolta, la società russa è «apatica», ma non esclude che la situazione economica e sociale potrebbe invece spingere i russi ad agire. Anche perché la mobilitazione ha dato un colpo durissimo a un’economia già in difficoltà. Tra i maschi che sono emigrati (spesso insieme alle famiglie) e quelli finiti in trincea, il mercato del lavoro russo sta sperimentando una carenza di manodopera senza precedenti negli ultimi trent’anni, come segnalato dall’Istituto di politica economica. Interi settori, come quello minerario o agricolo, sono rimasti senza braccia, dopo le retate dei militari a caccia di coscritti nelle fabbriche e nei villaggi. Alcune compagnie aeree stanno cancellando voli per mancanza di piloti, e le palestre hanno registrato un crollo del 30% della clientela, anche perché mancano gli allenatori.
Ma il danno più grave si registra nei settori che impiegano manodopera qualificata: a fuggire dalla Russia sono stati ovviamente i più benestanti e istruiti, i più globalizzati e moderni, come gli informatici. Il settore tecnologico è talmente alle corde che il Governo russo sta discutendo un’esenzione dei suoi dipendenti dalla mobilitazione. Difficile però che possa far tornare la fiducia: i 300 mila neomobilitati raccontano alle famiglie e ai social storie di abuso e abbandono da parte dei comandanti, di fame e freddo, di indennizzi non pagati e di bugie dei superiori. Ed è sintomatico che Vladimir Putin abbia scelto di incontrare come «madri dei soldati» soltanto funzionarie e attiviste del suo partito, invece di rischiare un faccia a faccia con le donne che da mesi non riescono ad avere notizie dei loro figli uccisi o catturati in Ucraina.