«Vorrei assicurarvi che non si tratta, non si tratta, non si tratta di molestie o abusi sessuali». Quando papa Francesco qualche tempo fa ha deciso di commissariare la Caritas Internationalis, l’organismo vaticano che coordina la rete delle Caritas di tutto il mondo, il suo presidente – il cardinale filippino Luis Antonio Tagle – ha sentito il bisogno di precisarlo tre volte: la pedofilia qui non c’entra, stavolta è «solo» una questione di cattiva governance. L’aneddoto può far sorridere, ma è un indizio eloquente di quanto pesante sia oggi l’aria che si respira in Vaticano sulla questione degli abusi sessuali. E di come – nonostante le ripetute promesse di papa Francesco sulla tolleranza zero verso questo fenomeno gravissimo che vede intrecciarsi doppie vite del clero a veri e propri reati – per la Chiesa cattolica e per i suoi fedeli questo resti ampiamente un nervo scoperto.
Nelle ultime settimane l’epicentro dello scandalo è stato ancora una volta la Francia: sulla scia delle rivelazioni del settimanale «Famille chrétienne» su monsignor Michel Santier – già vescovo di Luçon prima e di Créteil poi, giudicato colpevole di abusi contro due giovani avvenuti negli anni Novanta – è emerso che sono addirittura altri undici i vescovi francesi sui quali sono in corso indagini davanti alle autorità giudiziarie civili e a quelle ecclesiastiche. A renderlo noto è stato personalmente il presidente della Conferenza episcopale, monsignor Éric de Moulins-Beaufort, durante l’Assemblea dei 120 vescovi francesi tenutasi all’inizio di novembre a Lourdes.
Parole a cui è seguita la rivelazione compiuta personalmente dal cardinale Jean-Pierre Ricard, vescovo emerito di Bordeaux oggi 78enne, che ha ammesso un comportamento «riprovevole» nei confronti di una ragazza di 14 anni, compiuto 35 anni fa, quando era parroco. Uno scheletro nell’armadio che non gli ha comunque impedito di essere nominato prima vescovo e poi addirittura cardinale, partecipando nel 2013 persino al conclave che ha eletto papa Francesco.
Se possibile ancora più sconcertante era stato quanto già emerso a fine settembre su monsignor Carlos Ximenes Belo, vescovo di Timor Est; un salesiano che per il suo impegno per la fine della guerra in quello che oggi è il più giovane Stato indipendente dell’Asia nel 1996 fu insignito addirittura del premio Nobel per la pace. Nel 2002, a soli 54 anni, monsignor Belo presentò in maniera inaspettata le proprie dimissioni adducendo motivi di salute. Da allora ha lasciato Timor Est: vive in Portogallo, dopo un periodo trascorso in una missione in Mozambico. Solo a vent’anni dalle sue insolite dimissioni, però, il settimanale olandese «De Groene Amsterdammer» ha potuto pubblicare un’inchiesta in cui due uomini – all’epoca dei fatti minori – accusano il presule di abusi sessuali compiuti su di loro negli anni Novanta. I due spiegano che non sarebbero state le uniche vittime e che proprio l’aura di eroe nazionale avrebbe loro impedito di denunciare monsignor Belo all’epoca dei fatti.
Di fronte al clamore suscitato dalla vicenda il portavoce vaticano Matteo Bruni ha dichiarato che la Congregazione per la dottrina della fede (che per la Santa sede ha la giurisdizione sugli abusi sessuali commessi dai sacerdoti) sarebbe venuta a conoscenza di queste accuse solo nel 2019, comminando l’anno successivo alcune restrizioni a monsignor Belo, tra cui il divieto di esercitare il ministero a contatto con i minori e di recarsi a Timor Est. Ma anche ammesso che davvero nessuno in Vaticano nel 2002 conoscesse le reali ragioni delle dimissioni del vescovo-premio Nobel, resta il dato di fatto che negli ultimi due anni l’esistenza di un provvedimento disciplinare per accuse così gravi nei suoi confronti è rimasta nascosta. E questo nonostante le ripetute dichiarazioni degli organismi vaticani sulla necessità di trasparenza e vicinanza alle vittime di comportamenti tanto gravi.
Quanto all’Italia – su indicazione del nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), il cardinale Matteo Zuppi, e dopo lunghe reticenze – qualche settimana fa è stata presentata una prima parte di un rapporto nazionale sulle denunce di abusi sessuali rivolte a sacerdoti e operatori pastorali e raccolte dai centri di ascolto per le vittime istituiti recentemente nelle diocesi italiane. Il dato si riferisce al solo biennio 2020-2021 e parla di 89 vittime di episodi che sarebbero stati commessi da 68 autori diversi (per il 44,1% sacerdoti, per il 33,8% laici e per il 22,1% religiosi). Solo grazie a una precisa domanda dei giornalisti intervenuti alla presentazione, però, si è venuto a sapere che in realtà sono 613 i fascicoli depositati dalle diocesi italiane dal 2000 a oggi al dicastero per la Dottrina della fede.
Non significa automaticamente che tutte queste denunce di abusi siano fondate, ma certo è un numero che offre un’indicazione sull’ampiezza di un fenomeno fino a oggi rimasto ampiamente sottostimato nella vicina Penisola. Quelli elencati sono solo alcuni esempi che certificano il fallimento di vent’anni di risposte pubbliche da parte della Chiesa cattolica a una questione che ne sta minando profondamente la credibilità. Papa Francesco si è speso molto a livello personale su questo tema, come se volesse caricarsi il problema degli abusi nella Chiesa sulle proprie spalle: ha incontrato a più riprese le vittime, ha vissuto la vergogna per il male commesso condividendo il loro dolore. Ha creato comitati, ha promesso mano ferma e non c’è motivo per non credere che in questi suoi gesti e parole sia sincero. Ma tutto questo basta di fronte alle proporzioni che ha assunto il fenomeno? Davvero ci si può fermare al profilo della fragilità umana, della colpa e della misericordia che risana le ferite, senza aprire anche un esame di coscienza serio sul rapporto tra gli uomini di Chiesa e la sessualità?
Non a caso proprio questo è uno dei nodi emersi anche in quel Cammino sinodale in corso dal 2019 nella Chiesa della Germania che inquieta particolarmente il mondo conservatore cattolico. «Sebbene la dottrina sessuale della nostra Chiesa non sia la causa diretta degli intollerabili atti di violenza sessuale – hanno scritto in un documento i membri dell’Assemblea sinodale tedesca – costituisce comunque uno sfondo normativo che evidentemente ha potuto favorirli. Riconosciamo espressamente la colpa derivata dalla violenza a sfondo sessuale nelle parrocchie, istituzioni e comunità ecclesiastiche. Ci aspettiamo che coloro che si sono macchiati di (un concorso di) colpa si assumano le proprie responsabilità personali, ma allo stesso tempo come Assemblea sinodale cerchiamo percorsi per una conversione credibile». Roma non sembra ancora molto disposta ad ascoltare questo invito. Ma non comprendere che intorno a questo tema oggi si gioca molto del suo futuro potrebbe costarle caro.