Doveva essere una «passeggiata di salute» e invece la visita ufficiale a Washington del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il 15 febbraio scorso, si è rivelata una ingarbugliata matassa di incognite. O – come hanno sottolineato i principali quotidiani statunitensi dal «New York Times» al «Washington Post» – una congerie di affermazioni confuse e avventate che hanno dimostrato solo la plateale ignoranza di Trump in merito al conflitto israelo-palestinese. Trump ha certamente riaffermato con grande enfasi il «vincolo inscindibile» che lega Stati Uniti e Israele, soprattutto di fronte alle «ambizioni nucleari dell’Iran», il che ha certamente rassicurato il premier israeliano, ma – al di là delle apparenze – ha finito per spiazzarlo quando ha affermato che non ha preferenze sulla strada che porterà alla pace con i palestinesi. Per lui «la soluzione uno o due Stati» non ha importanza, scelgano quella che vogliono, con negoziati diretti tra le parti cioè tra israeliani e palestinesi. A chiosa del tutto, se ne è uscito con una paterna raccomandazione ad Israele perché si dia una regolata sulla questione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania.
Forse aveva la testa altrove il presidente americano. D’altronde era impegnato nel braccio di ferro con parte della magistratura sulla costituzionalità o meno del suo Muslim Ban e le proteste che ha suscitato in tutto il mondo arabo e musulmano; un po’ frastornato dalle dimissioni del consigliere per la Sicurezza nazionale appena nominato Michael Flynn; alle prese infine con manifestazioni di piazza in grandi città americane in cui migliaia di persone non lo riconoscevano come proprio presidente, per non parlare della sua crociata contro la stampa bugiarda.
In questo contesto quando ha affermato che per lui la soluzione per la pace tra israeliani e palestinesi poteva essere indifferentemente quella a uno o due Stati si è avuta soprattutto l’impressione che della cosa non gliene importasse molto e proprio quell’affermazione costituisse il primo atto del disengagement internazionale dei «suoi» Stati Uniti concentrati solo su sé stessi. In tutti i casi è stato molto chiaro quando ha specificato che la pace andrà negoziata direttamente tra Israele e i palestinesi, il che significa che gli Usa non fungeranno più da honest broker (onesto mediatore) tra le parti come è avvenuto per i defunti Accordi di Oslo del 1993. E questa per Netanyahu, al di là dei sorrisi trionfali della conferenza stampa, non è stata una buona notizia.
Se infatti ha sempre negato e disprezzato la soluzione dei due Stati, ha anche rifiutato in diverse occasioni i negoziati diretti con i palestinesi. Ma in qualità di primo ministro – se gli Usa non scenderanno più in campo con un sant’uomo alla John Kerry (l’ex segretario di Stato di Obama) disposto a fare la spola tra Gerusalemme e Ramallah – toccherà proprio a lui la diplomazia del dialogo coi palestinesi. E questo fatalmente lo esporrà agli attacchi dei suoi stessi ministri più intransigenti come Avigdor Lieberman degli Esteri o Naftali Bennet dell’Istruzione che non solo rappresentano l’ala più oltranzista verso i suddetti palestinesi, ma non aspettano altro che soppiantarlo alla testa del governo.
Sempre che i palestinesi, poi, si convincano a sedersi ad un eventuale tavolo dei negoziati senza un mediatore credibile che riequilibri la bilancia delle trattative sui piatti della quale da una parte c’è uno Stato forte (Israele) e dall’altra un movimento di liberazione sempre più sfibrato (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) ancora confinato nel limbo di quello Stato virtuale che è l’Autorità nazionale in Cisgiordania che peraltro vive di elemosine internazionali e deve vedersela con l’altra anima del suo popolo, ovvero Hamas che fa il bello e cattivo tempo nella Striscia di Gaza.
Anche ammettendo che per un qualche miracolo israeliani e palestinesi si convincano a sedere al tavolo dei negoziati quali soluzioni potrebbero vagliare?
Con la sua affermazione «uno o due Stati per me pari sono», Trump non ha minimamente riflettuto sulle conseguenze a cui può portare l’aver cancellato con una battuta 24 anni di sforzi diplomatici americani e internazionali che erano arrivati a individuare l’unica soluzione decente al conflitto israelo-palestinese, ovvero la soluzione dei due Stati da far convivere nella Palestina storica, cioè uno Stato israeliano e uno palestinese. Certo una soluzione difficile da realizzare, tant’è che gli Accordi di Oslo del 1993, di cui costituiva il presupposto, sono falliti. Ma le alternative possibili preludono a scenari molto foschi o molto più ardui.
Lo Stato unico, che includa cioè sia ebrei che palestinesi, dovrebbe avere come presupposto che Israele conceda la propria cittadinanza e il diritto di voto anche ai palestinesi di Cisgiordania e Gaza per potersi ancora dire uno Stato democratico. Ammesso e non concesso che un governo così ostile ai palestinesi come l’attuale sia disposto a concedere loro la cittadinanza, Israele potrà ancora dirsi «lo Stato degli ebrei»? Dal 1967, cioè dalla guerra dei Sei giorni con la quale Israele conquistò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza (sottratte all’Egitto), le Alture del Golan (sottratte alla Siria) e la Cisgiordania (sottratta alla Giordania), l’incubo dei governi israeliani di destra o di sinistra è sempre stato il possibile sorpasso demografico dei palestinesi rispetto agli ebrei israeliani.
Una delle ragioni per cui Israele non ha provveduto ad annettere tutti i territori occupati – a parte il divieto internazionale – è stata proprio la paura del tasso di natalità palestinese, molto superiore a quello ebraico. E vanno in questa direzione anche le restituzioni mirate, non tanto della penisola del Sinai semidesertica (prezzo dell’Accordo di pace di Camp David con l’Egitto del 1979), quanto della Striscia di Gaza sovra-popolata e semi-ingovernabile, restituita unilateralmente ai palestinesi nel 2005 dall’allora primo ministro Ariel Sharon. Parte delle Alture del Golan, invece – proibizione internazionale o meno – è stata annessa nel 1981 per ragioni strategiche sia militari che idriche.
Se dovessero allora prevalere le ragioni dello Stato «ebraico» che fine farebbero i palestinesi? Sarebbero discriminati o cittadini di serie B? In tutti i casi all’indomani della conferenza stampa congiunta di Netanyahu e Trump la maggioranza degli israeliani (il 51%) si è detta contraria alla soluzione dello Stato unico, mentre sui giornali locali si è scatenato un dibattito molto animato su quali potrebbero essere le alternative alla soluzione dei due Stati. In pratica ne sono state individuate due, una di vecchia data, l’altra un po’ più originale.
Nella prima ipotesi si propone di rispolverare l’idea di una federazione o confederazione tra la Cisgiordania e la Giordania, basata sul fatto che fin dal 1948 la maggioranza della popolazione giordana è palestinese. L’ipotesi è stata sostenuta in diverse occasioni dallo stesso Netanyahu, senza fare però i conti con l’oste e cioè col re di Giordania Abdallah II che da tempo fatica a tenere in equilibrio la popolazione originaria del Paese, i transgiordani, e la componente palestinese-giordana al punto di aver fatto baluginare più volte la possibilità di ritirare la cittadinanza a parte della popolazione palestinese di casa sua a fronte delle proteste degli autoctoni. Poi gli stessi palestinesi-giordani, che nel regno hashemita hanno raggiunto in maggioranza benessere e status sociale, forse non gradirebbero l’arrivo dei fratelli male in arnese della Cisgiordania. Resterebbe infine l’incognita di Gaza, regno di Hamas, molto poco gradita ad Amman che negli ultimi anni ha seri problemi con gli islamisti locali e le infiltrazioni dell’Isis.
In alternativa alla federazione, si è presa in considerazione l’idea di scambi di territori tra Israele, Egitto, Autorità palestinese (ovvero quel po’ che resta della Cisgiordania) e fors’anche la Giordania. Nell’uno e nell’altro caso, il tutto dovrebbe essere negoziato nell’ambito di un processo regionale di pace, che andrebbe a sostituire le trattative bilaterali tra Israele e i palestinesi ipotizzate da Trump. Ma qualcuno ha ragionato seriamente su cosa significhi una conferenza di pace regionale oggi in Medio Oriente? Le priorità a quelle latitudini si chiamano Siria, Iraq, Yemen, Libia, Isis, guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran, lo stesso nucleare iraniano. Spiace dirlo ma del vecchio conflitto israelo-palestinese pochi si preoccupano, si è come «irlandizzato».
E i più preoccupati sono i palestinesi. Il presidente dell’Autorità nazionale, Abu Mazen, ha fatto fuoco e fiamme contro il «killeraggio» della soluzione dei due Stati operato a Washington, appoggiato dalla Lega araba e dall’Onu. In mano, infatti, gli rimane un’unica carta da giocare contro Israele: deferirlo alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja per il processo di colonizzazione ebraica di Gerusalemme Est e dell’intera Cisgiordania. Un’arma eclatante, ma in parte spuntata. Ben diversa la reazione di Hamas a Gaza che ha eletto come proprio leader nella Striscia Yahya Sinwar, un uomo spietato, per Israele un terrorista, che proviene dal braccio armato del partito, le Brigate Ezzadin al-Kassam.