Uno scherzo di Rivoluzione

A 10 anni dalla sua «Primavera» la Tunisia non ha ancora trovato una direzione. Si scende sempre in piazza per chiedere pane, riforme e denunciare gli abusi della polizia
/ 08.02.2021
di Francesca Mannocchi

Nariman Zorgui ha 21 anni, grandi occhi neri che spuntano dalla mascherina che copre il volto. Che sorrida si capisce dalle pieghe che le circondano gli occhi mentre osserva la piazza, quando le centinaia di giovani che affollano il sabato pomeriggio Avenue Bourguiba, in centro a Tunisi, alzano le braccia, battono le mani e intonano lo stesso slogan: «Basta corruzione, vogliamo le riforme». Nariman non è né povera né disoccupata. È figlia della Tunisia benestante, di una classe media che non si è (ancora) impoverita. Il suo inglese è perfetto, studia marketing all’università. Nessuno nella sua famiglia ha problemi economici, eppure quando tre settimane fa ha acceso la Tv e ha assistito all’ondata di arresti durante le manifestazioni ha deciso di unirsi ai suoi coetanei per difendere un diritto per cui il Paese ha combattuto 10 anni fa ma che, evidentemente, non è ancora completamente acquisito: la libertà di espressione.

«Stavo mangiando con la mia famiglia», ci racconta. «Guardavo il notiziario e c’erano persone arrestate per il solo fatto di essere scese in piazza a rivendicare i loro diritti, a protestare pacificamente per chiedere riforme. Anzi, pane e riforme. Si vedevano minorenni trascinati in malo modo dalle forze dell’ordine. Non posso accettare che questo accada ancora in Tunisia, 10 anni dopo la Rivoluzione». Per questo motivo il sabato successivo è scesa in piazza anche lei. A chiedere la scarcerazione dei giovani ingiustamente fermati. A domandare che le richieste di riforme non restino inascoltate.

La «Primavera tunisina» è generalmente ricordata come la storia di maggior successo delle rivolte di 10 anni fa, talvolta come la sola di successo. Eppure i tunisini aspettano ancora stabilità e prosperità. Lavoro e giustizia. Il 14 gennaio scorso, anniversario della Rivoluzione, il primo ministro Hichem Mechichi ha annunciato un rigoroso lockdown di 4 giorni, formalmente per arginare il contagio dovuto all’epidemia da Covid-19. La decisione è stata però percepita come un blocco politico per evitare l’espressione del malcontento, le manifestazioni. Una strategia per far sì che i cittadini non protestassero per le mancate riforme, l’ennesima crisi governativa, la mancanza di aiuti economici. E quando il giorno successivo un video ha mostrato un agente di polizia nell’atto di aggredire un pastore a Siliana, regione nord occidentale del Paese, la rabbia è esplosa nelle strade e le proteste continuano.

Il Governo accusa i manifestanti di aggredire le forze dell’ordine e saccheggiare case e negozi. I manifestanti chiedono lavoro e dignità, rilascio dei detenuti. Denunciano abusi perpetrati dalla polizia che ha usato lacrimogeni, idranti e arrestato arbitrariamente centinaia di minorenni e attivisti. Ad esempio Ahmed Ghram, blogger e membro della Lega tunisina dei diritti umani, è stato fermato lo scorso 17 gennaio dopo che le forze di polizia hanno fatto irruzione in casa sua, accusandolo di incitamento alla disobbedienza civile. È stato trattenuto per 11 giorni in prigione. Secondo Nawres Zoghbi Douzi, altro attivista della Lega tunisina per i diritti umani, dall’inizio delle proteste sarebbero 1400 le persone tratte in arresto, il 30 per cento avrebbe meno di 16 anni. «È il retaggio del regime», dice. «In questo Paese puoi deridere il Governo senza essere punito ma non puoi criticare l’operato delle forze dell’ordine».

Il 19 gennaio il primo ministro Mechichi, rivolgendosi alla Nazione, ha affermato di essere consapevole della crescente rabbia sociale e della necessità di riforme strutturali. Una settimana dopo ha nominato 11 nuovi ministri. Un rimpasto di Governo che però ha poco a che fare col cambiamento: 4 dei ministri di nuova nomina sono sospettati o indagati per corruzione. Le blande promesse del primo ministro non sono bastate a placare l’urgenza della piazza e il 26 gennaio centinaia di tunisini hanno di nuovo marciato al Bardo verso il Parlamento, mentre altri protestavano nei quartieri marginalizzati della capitale come Kabaria e Hay Ettadhamen. La folla cantava gli slogan della rivolta tunisina del 2011: «La gente vuole rovesciare il regime» e «Pane, libertà, dignità nazionale». Le parole d’ordine, a 10 anni di distanza, non sono cambiate.

Lo scorso anno, secondo l’agenzia di rating Fitch, l’economia tunisina ha subito una contrazione di circa l’8 per cento, il calo più significativo dalla dichiarazione di indipendenza del 1956. Fitch prevede anche che il debito pubblico tunisino raggiungerà l’anno prossimo quasi il 90 per cento del Prodotto interno lordo, con un aumento di circa il 20 per cento rispetto a soli 2 anni fa. A questo vanno ad aggiungersi i numeri della disoccupazione che sono impressionanti. Il 36 per cento dei giovani è senza lavoro e la situazione rischia di peggiorare: secondo il Governo e le organizzazioni internazionali la pandemia ha decimato l’industria turistica del Paese e tagliato le esportazioni verso l’Europa, il principale partner commerciale della Tunisia, provocando la chiusura di migliaia di aziende. Nel 2020 le entrate legate al turismo sono crollate del 65% e a seguito della crisi sanitaria, secondo un rapporto recente dell’International finance corporation, il 5% delle aziende tunisine ha chiuso definitivamente.

Nariman non era in piazza 10 anni fa, nelle settimane della «Rivoluzione dei gelsomini». Di quei giorni però ricorda sapori, odori, i volti di chi la circondava. Le immagini del 17 dicembre 2010 quando Mohammed Bouazizi, un giovane fruttivendolo di Sidi Bou Zid, si è dato fuoco contro la confisca della sua carriola, sono per Nariman un simbolo e un monito. Una ferita da celebrare, una promessa di cambiamento a cui tenere fede. Della piazza del 2011 la giovane gode le conquiste e ricorda il sangue, i morti, i sacrifici di tante famiglie e tante città, compresa la città natale della sua famiglia, Kasserine, uno degli epicentri della rivoluzione.
Kasserine, insieme a Sidi Bou Zid, è stata una delle culle del «Thawrat al-karama», la «Rivoluzione della dignità». La città, patria del maggior numero di martiri della rivoluzione, era ed è una delle più emarginate del Paese, con un tasso di povertà del 50%. Nella città di Kasserine il 43% dei giovani tra i 18 e i 34 anni non ha lavoro. È anche per sostenere la loro protesta che Nariman, oggi, è in piazza. «Avevo solo 11 anni quando la Rivoluzione ha determinato la fine del regime di Ben Ali», racconta. «Ma ricordo i ragazzi della mia città picchiati e uccisi dalla polizia. Ecco perché se mi chiedi cosa sia la democrazia oggi penso al sacrificio delle persone morte in quei giorni. La democrazia per me ha il colore del sangue, il sangue dei martiri è quello che ci ha permesso di arrivare qui, oggi, a dire al Governo che abbiamo bisogno di riforme. I nostri genitori erano oppressi dal regime di Ben Ali, hanno combattuto per la nostra libertà. È allo sforzo di chi ha sfidato il regime nel 2011 che dobbiamo la forza delle nostre proteste, oggi».

Quando la prima fila dei manifestanti comincia a prendere a calci gli scudi delle forze dell’ordine lo sguardo di Nariman si fa malinconico. «La Rivoluzione a volte mi pare un grande scherzo», è una frase che sussurra, a differenza delle altre che pronunciava con forza e orgoglio. Quando dice scherzo la voce di fa bassa, come se ne avesse pudore, o peggio, come se ne avesse paura. «Ma è per questo che siamo qui. Non la daremo vinta a chi vuole restaurare forme di potere repressive».

Nariman, come molti dei suoi coetanei sa che la transizione democratica richiede tempo e che 10 anni non sono un tempo sufficiente per compiere tutti i cambiamenti necessari. È saggia abbastanza da sapere che è vero che la Rivoluzione tunisina è una Rivoluzione compiuta e non fallita, perché – dice – «abbiamo guadagnato a differenza di altri il diritto di essere qui a dire che vogliamo quello che ci spetta», ma mancano molti pezzi per completare il puzzle. E i pezzi sono in mano a una classe politica che si è dimostrata inadeguata al compito storico che avrebbe dovuto svolgere, accompagnare il Paese alla formazione e stabilizzazione di istituzioni democratiche.

Invece la Tunisia ha cambiato 11 Governi in 10 anni e il tessuto socio-economico, anziché ripararsi, ha continuato a essere danneggiato ed è rimasto vittima della mancanza di capacità istituzionale di fissare obiettivi di medio termine e progettare soluzioni durature, soprattutto nel mercato del lavoro. «Quella di queste settimane – afferma Nariman – non è una Rivoluzione. Almeno non ancora. È un’onda di giovani che riempie le strade per ricordare ai politici che abbiamo eletto che sono passati 10 anni e stiamo ancora aspettando che mantengano le promesse del 2011. Siamo qui per ricordare loro che siamo in attesa. Poi, se servirà un’altra Rivoluzione per averle, beh, la faremo».