La vittoria nelle elezioni italiane del Movimento 5 stelle e della Lega, nel contesto di una coalizione di centro-destra di cui Matteo Salvini è oggi il primattore, avrebbe dovuto provocare in Europa un allarme generale, forse anche uno sconvolgimento nei mercati con riflessi sul rating stabilito dalle maggiori agenzie internazionali. Così finora non è stato. Perché? Ed è ragionevole aspettarsi che il temutissimo «caso Italia» sia da relegare nel vasto catalogo delle profezie di sciagura destinate a restare tali, a non compiersi mai? Vediamo.
In attesa di stabilire se il prossimo governo italiano sarà formato dai 5 stelle in accordo con il Pd (o sue parti) o con la Lega, oppure se il centro-destra compatto riuscirà ad aggregare in parlamento, previa campagna acquisti, qualche decina di «responsabili» che gli permettano di produrre una maggioranza, occorre considerare la mutazione che sia i grillini quanto i leghisti hanno compiuto negli ultimi mesi.
Luigi Di Maio ha di fatto rilevato da Beppe Grillo la leadership del movimento, così scolorandolo e ammorbidendone di molto le punte polemiche. Oggi i 5 stelle sono anideologici e quasi apolemici. Assomigliano semmai a una aggregazione di correnti e di stili, in massima parte alieni alla politica, adattabili a qualsiasi strategia e prassi purché garantisca la conquista e il mantenimento del potere. Qualcosa – absit iniuria – di simile, in versione intellettualmente assai ridotta, alla Democrazia Cristiana nella Prima Repubblica. Una «balena gialla», assimilabile alla «balena bianca». Con l’aiuto discreto del Quirinale e dei «poteri forti» in ambito finanziario, Di Maio e la sua squadra hanno assicurato le cancellerie europee e le piazze borsistiche che le bordate contro l’euro e l’Europa, peraltro quasi espunte dal vocabolario, erano solo propaganda. I 5 stelle non vogliono far saltare l’euro né uscire dall’Ue. Come sia compatibile il rigore fiscale con il reddito di cittadinanza e altre promesse di elargizioni alle classi meno abbienti, specie al Sud, resta da dimostrare. Ecco perché possiamo aspettarci che in caso di governo a guida post-grillina, presieduto da Di Maio, la contraddizione sia risolta o rinnegando le promesse elettorali – a rischio di perdere il consenso interno – o finendo per scontrarsi con Berlino (e Bruxelles) pur di non mettere a repentaglio il vasto patrimonio di voti accumulato il 4 marzo. Resta poi da capire come il Nord Italia possa accettare di essere governato da una Lega Sud, quale di fatto è il Movimento ex grillino.
Sul fronte opposto (o apparentemente tale) si staglia la nuova Lega «nazionale» di Matteo Salvini. Anche qui, assistiamo al rovesciamento dei princìpi fondatori di quel movimento, che agli albori bossiani, sotto la sapiente guida intellettuale di Gianfranco Miglio, si configurava come formazione secessionista. Padania, non Italia – identificata con «Roma ladrona» – questa era la prospettiva originaria. Salvini non è riuscito ancora a sfondare a sud dell’Appennino tosco-emiliano, ma è riuscito a dare un’impronta italiana al suo partito. Oggi la Lega è l’unica formazione politica con una struttura di partito radicata nel territorio. La vocazione nazionale non trova ancora pieno conforto nel consenso dei centro-meridionali, ma potrebbe essere questione di poco tempo perché ciò accada. Infatti oggi Salvini interpreta a suo modo un sovranismo moderno, quello che piace a chi teme gli immigrati e non è disposto a pagare le tasse a uno Stato che sente lontano. Più Italia, meno Europa. Sotto questo profilo, la parte d’Italia più organicamente legata alla catena del valore tedesca rischia di collidere con le regole imposte dalla Europa germanica o presunta tale. A Berlino si teme perciò molto più Salvini che Di Maio.
Alla fine, a decidere del futuro governo sarà quel che resta del Pd, sotto la regìa del Quirinale. Il partito già renziano è la quantità marginale, capace di far pendere l’ago della bilancia verso Di Maio – alleandosi con i 5 Stelle – oppure Salvini – non prestandosi a questa operazione. Non si può escludere, anche se improbabile, l’ipotesi che alla fine di qualche mese di trattative salti tutto e si debba tornare a votare.
Da tale scenario emerge che l’Italia sta gettando alle ortiche l’occasione storica che le si è presentata con la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea: diventare il terzo «grande» dell’Europa comunitaria, sia pure a distanza da Germania e Francia. Quale che sia la combinazione o non combinazione che scaturirà dalle trattative del dopo-voto, il governo che (non) ne scaturirà sarà debole e inesperto. Ancora una volta, e più di prima, l’Italia sarà più oggetto che soggetto ai tavoli comunitari. Utile alle manipolazioni francesi – Macron ha proposto a Gentiloni nientemeno che un «Trattato del Quirinale», un’intesa franco-italiana simile nella forma a quella stipulata da de Gaulle e Adenauer con il Trattato dell’Eliseo – o tedesche.
Infine, bisognerà vedere come l’Italia sopporterà, anche sotto il profilo politico-istituzionale, la crescente partizione fra Nord e Sud. Non solo economica e culturale, ormai anche politica. Con Roma risucchiata nel Sud, e una maggioranza parlamentare che, qualsiasi sia la sua configurazione, escluderà metà del Paese. A meno di non immaginare che alla fine, in qualche modo, Di Maio e Salvini si mettano d’accordo. Il primo respingendo i democratici, il secondo liberandosi di Berlusconi. Ma nessuno dei due pare disposto a fare il secondo dell’altro. Il palcoscenico politico italiano si appresta a ospitare l’ennesima tragicommedia. Forse più tragica, meno divertente di quelle passate.