Un’elezione storica

Nella popolazione messicana la figura del nuovo presidente Lopez Obrador suscita grandi aspettative
/ 09.07.2018
di Angela Nocioni - Testo e foto

Una mano femminile rinsecchita, curata, raccoglie con gesti lenti la biancheria da poveri stesa al sole su un filo teso tra due pali della luce della piazza principale di Oaxaca, el Zocalo. Scaccia due cani rannicchiati sotto una coperta e indica il numero 53 per cento scritto con la vernice rossa accanto alla vetrina dell’ex «bazar Milano» dall’altra parte della strada.

«Meraviglioso trionfo – dice Ramona Delgado Paez mentre ripone il bucato fresco nel grembiule – con trenta milioni di voti dalla propria parte si può rivoluzionare davvero questo paese. Se il nuovo presidente avrà veramente voglia di farlo si vedrà subito appena assumerà l’incarico a dicembre, si vedrà da come si comporterà con le richieste degli indigeni di Oaxaca».

Ramona ha votato per AMLO, come chiamano in Messico il neopresidente Andrés Manuel López Obrador. Questa anziana signora meticcia è tra i pochissimi a dire che ha votato per lui qui nel Zocalo occupato per l’ennesima volta dalle comunità indigene dello Stato di Oaxaca (il Messico ha una struttura federale) che ambiscono a diritti di base, da insegnanti in sciopero che oltre a rivendicazioni di categoria chiedono un repulisti nelle istituzioni locali in mano da quasi un secolo al Partito rivoluzionario istituzionale (il PRI) e da una eterogenea rappresentanza delle infinite sinistre messicane spuntate negli ultimi vent’anni a sinistra della sinistra tradizionale.

Della sinistra storica Lopez Obrador è da decenni il capo, l’eterno candidato alla presidenza che stavolta, però, ce l’ha fatta. Morena, il movimento da lui fondato dopo la sconfitta per 300 mila voti nel 2006, ha stravinto anche a Città del Messico con la sua candidata sindaco Claudia Sheinbaum. AMLO ha una maggioranza schiacciante alla Camera, più incerta al Senato, ma quel 53 per cento è un capitale prezioso che molti alla sua sinistra considerano un assegno in bianco in mano al neopresidente per cambiare «tutto e subito».

Nella Oaxaca simbolo del radicalismo politico messicano, dove un assai combattivo sindacato dei maestri organizza scioperi ad oltranza tutti gli anni da quarant’anni ed è ormai considerata per conflittualità politica il nuovo Chiapas, l’allegria per la sconfitta delle destre è oscurata da un’ombra di sarcasmo. «AMLO aquì te esperamos querido», «qui t’aspettiamo caro» ripetono in uno slogan ritmato come un rap una decina di studenti appena arrivati dalla Unam, l’università pubblica di Città del Messico che del radicalismo politico nazionale è il tempio.

«Sette persone su dieci nello Stato di Oaxaca sono povere, le persone indigene che sono la maggioranza della popolazione locale sono trattate come bestie da soma. Se Lopez Obrador vuol davvero rivoluzionare il Messico cominci da qui, o non gli daremo nemmeno il tempo di cominciare altrove» proclama baldanzoso Emiliano, un ventunenne studente di filosofia arrivato stamattina dal Distretto federale con la A cerchiata di anarchia tatuata sotto il polso sinistro.

«Ascolteremo tutti, rispetteremo tutti, però daremo la precedenza ai più umili e ai dimenticati, prima di tutti agli indigeni» ha promesso il neopresidente nell’entusiasmo della notte del trionfo. Ha poi aggiunto che rispetterà l’autonomia della Banca centrale, che il suo governo avrà sacro rispetto della disciplina fiscale, che non ci saranno espropri e che tutti gli impegni presi con le imprese straniere saranno rispettati. Parole utili a scacciare il fantasma del candidato radicale antisistema brandito come arma dai suoi avversari. Parole ascoltate con grande scetticismo dall’assemblea radicalissima della Oaxaca occupata che teme il potere dei due luogotenenti subito nominati dal neopresidente come coordinatori della non meglio definita «transizione per i temi economici», il ministro dell’industria Carlos Urzua e l’imprenditore Alfonso Romo.

L’estrema sinistra riunita a Oaxaca dice di aver paura di far la fine degli zapatisti del vicino Chiapas. «Temo tanto rumore per nulla» sintetizza con un gran sorriso Leticia, maestra militante nel sindacato 22, cellula dissidente dell’elefantiaca organizzazione di categoria degli insegnanti considerata «il covo degli intellettuali organici dell’ultima ribellione messicana» anche se a Oaxaca da almeno dieci anni chi decide ogni passo delle varie insurrezioni popolari sono gli indios delle comunità delle montagne che controllano gli accessi al centro, decidono cosa occupare e quando, gestiscono la sicurezza.

Per capire cosa significhi per loro la vittoria di Obrador alle elezioni, bisogna fare un passo indietro. Già nel 1988 Cuauhtemoc Cardenas, il candidato di un vasto schieramento progressista, sembrava aver vinto le elezioni, ma durante lo scrutinio un provvidenziale black out interruppe il conteggio dei voti. Quando tornò l’energia elettrica, Cardenas si ritrovò al secondo posto. Il Messico fu sull’orlo di una guerra civile, ma Cardenas scelse la via pacifica e lo schieramento che lo sosteneva si trasformò nel Partito della rivoluzione democratica (PRD). Il governo che si insediò, presieduto da Carlos Salinas de Gortari, realizzò una riforma costituzionale per preparare il paese all’ingresso nel Nafta (il trattato di libero commercio con Usa e Canada). Nella riforma venne cancellato il diritto di proprietà collettiva sulla terra delle comunità indigene.

Lo stesso giorno dell’entrata in vigore del Nafta, il Capodanno del 1994, una parte delle comunità indigene del Chiapas si dichiarò in «insurrezione armata». Molto mal armati, ma abilmente diretti nelle strategie di comunicazione con le sinistre di mezzo mondo dal loro leader mediatico che si firmava subcomandante Marcos, gli indigeni zapatisti riuscirono ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Il governo dovette accettare un negoziato. Intanto Cardenas perse le elezioni e il nuovo presidente Ernesto Zedillo disattese un primo accordo di pace firmato con gli zapatisti che prevedeva una riforma costituzionale. Alla rottura delle trattative seguirono anni di guerra di bassa intensità con occupazione militare dei territori indigeni del Chiapas, massacri e persecuzioni di ogni tipo. Fino alle elezioni del 2000.

L’ex dirigente della Coca Cola Vicente Fox del PAN, Partito di azione nazionale, un partito conservatore di destra, conquistò in quella fase politica il ruolo di innovatore. Fox vinse e promise di «risolvere la questione del Chiapas in quindici minuti». Disse che avrebbe usato la via politica. Gli zapatisti allora, dopo aver fatto arrivare in marcia dal Chiapas a Città del Messico i capi indigeni, ottennero il risultato storico di parlare in aula, con i loro passamontagna, nel parlamento messicano. Fox assicurò di accogliere le loro richieste, incluso il riconoscimento delle istituzioni comunitarie e il diritto alla terra. Gli zapatisti tornarono allora nella Selva ed attesero. Attesero.

«Sono ancora lì che aspettano – dice Leticia – vorremmo evitare di fare la stessa fine».