C’è una logica stringente che unisce eventi mondiali delle ultime settimane: la vittoria eclatante di Boris Johnson nelle elezioni inglesi; l’impeachment di Donald Trump; ma anche le rivolte in India contro le nuove leggi sulla cittadinanza. In tutte le democrazie del pianeta continua a soffiare il vento del nazionalismo-sovranismo. Quella stagione politica non si è affatto chiusa. D’altronde non si tratta solo delle democrazie.
La Cina di Xi Jinping ha abbracciato forse per prima, un decennio fa, la sua versione del populismo nazionalista; e quando osserviamo gli abusi contro i diritti umani degli uiguri, i campi di detenzione per questa minoranza islamica nello Xinjiang, è inevitabile allineare le due più vaste nazioni del mondo (Cina e India) ad una tendenza più generale che è una reazione difensiva dopo quasi un ventennio di avanzata del fondamentalismo islamico in varie zone del pianeta. È una storia che parte da lontano, dalla guerra in Cecenia all’11 Settembre, ed ha avuto la sua ultima puntata americana con il Muslim Ban di Trump, tutt’altro che anomalo come dimostrano India e Cina.
Nel 2016 la vittoria di Brexit nel Regno Unito fu il preludio e il presagio dell’inattesa elezione di Trump, meno di cinque mesi dopo. Nei due casi i sondaggi fecero un flop clamoroso. Nei due casi una costante fu la rivolta della classe operaia contro l’establishment. Nazionalismo e sovranismo, protezionismo contro la concorrenza dai paesi emergenti, resistenza all’immigrazione: l’elenco dei punti comuni fra le insurrezioni populiste anglo-americane è lungo. Le élite tradizionali (compresi i capitalisti, i top manager delle multinazionali, i repubblicani e i Tories di vecchio stampo) odiano o disprezzano «i gemelli» Donald e Boris, qualche volta scambiando i propri desideri per realtà.
Gli economisti prevedono da due anni cataclismi nelle economie americana e britannica, mai avvenuti. Intellettuali e giovani universitari hanno avuto innamoramenti per Jeremy Corbyn, la riscoperta del marxismo è stata celebrata, ma il verdetto delle urne è deludente su quel fronte. Perciò, subito dopo l’euforìa di Trump, è interessante l’impatto dell’elezione britannica sulla sinistra americana a meno di 11 mesi da un altro voto di portata mondiale. Esistono almeno due versioni americane di Corbyn. Bernie Sanders, il senatore del Vermont che si proclama socialista e già sfidò Hillary Clinton per la nomination nel 2016, è il più simile. Si può applicare a Sanders la battuta che il «Financial Times» coniò per Corbyn: reduci di una sinistra «vetero» secondo la quale la Guerra fredda fu vinta dalla parte sbagliata. Simpatizzanti del castrismo cubano, dei vari Chavez Maduro, Morales, nonostante i fallimenti ripetuti. Piacciono, non a caso, a tanti giovani che della Guerra fredda o dell’Urss non sanno nulla.
L’altra simil-Corbyn in America è la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, la cui carriera politica ebbe inizio con il movimento Occupy Wall Street e la protesta contro i salvataggi delle grandi banche, le diseguaglianze sociali, l’economia al servizio dell’un per cento di privilegiati. La Warren è più moderna di Sanders e Corbyn, non ha nostalgie di Che Guevara o T-shirt con la faccia di Mao. Insieme, la Warren e Sanders hanno un seguito che sfiora la metà della base democratica nei sondaggi. Di recente però l’ascesa della Warren – che aveva sorpassato il moderato Joe Biden, ex vice di Obama – si è arrestata e ha dato segni di flessione. È accaduto che, per onestà intellettuale o ingenuità, lei ha scoperto le carte sulla sua riforma sanitaria.
Porterebbe in America un sistema uguale a quello italiano, un servizio sanitario nazionale, gratuito o quasi. Il costo della transizione, che sposterebbe dal privato al pubblico l’intera sanità, lei stessa lo ha calcolato in ventimila miliardi di dollari per un decennio. Se a questo si aggiungono altre proposte simili per Warren e Sanders come il Green New Deal e l’università gratuita, la ricetta è chiara: trasformare gli Stati Uniti in una grande socialdemocrazia nordeuropea. Con una pressione fiscale molto più elevata di quella attuale, ma un modello più equo e solidale, meno diseguaglianze, più redistribuzione, più servizi sociali per tutti.
È un’idea suggestiva, affascinante, però spaventa anche metà degli elettori democratici, inclusa una parte di classe operaia: vedono l’Europa come un continente stagnante, senza crescita. Forse sono degli smemorati, perché l’America fu una specie di grande Svezia nel periodo incluso tra Franklin Roosevelt e John Kennedy, l’èra delle grandi riforme sociali, quando l’aliquota marginale più elevata sugli straricchi raggiunse il 70%. Quel modello però s’incagliò negli anni Settanta.
Poi arrivò la rivoluzione neoliberista, guidata da un’altra coppia anglo-americana: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Disprezzati e odiati dalle élite anche loro. La Thatcher venne «riabilitata» a sinistra solo da Tony Blair. Reagan, che gli intellettuali europei trattavano come un rozzo cowboy, è stato rivalutato da Barack Obama. Un’altra lezione che viene meditata dopo la vittoria di Johnson: guai a disprezzare gli elettori. Chi votò Brexit nel 2016 si è sentito preso in giro dai tre anni di rinvii che tentavano di svuotare quel referendum. Una parte degli americani prova irritazione di fronte all’impeachment: se Trump è indegno, se è un pericolo per la democrazia, molti cittadini pensano che la via maestra per cacciarlo è il suffragio universale.
Trump entra nella storia come il terzo presidente degli Stati Uniti ad aver subito l’impeachment in due secoli e mezzo. «Non ci ha lasciato altra scelta», dice in tono grave e solenne la presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi. I due capi d’accusa con cui è stato incriminato sono l’ostruzione al Congresso e l’abuso di potere: Trump minacciò di sospendere gli aiuti militari all’Ucraina, necessari per difenderla dalla Russia, finché non otteneva dal governo di Kiev un aiuto contro il proprio avversario politico Joe Biden (ex vicepresidente con Barack Obama, oggi candidato alla nomination democratica per l’elezione presidenziale del 2020). Per i democratici, che hanno la maggioranza alla Camera, queste sono violazioni della Costituzione per le quali l’impeachment è doveroso. Trump ha reagito accusando la Pelosi e il suo partito di «tentato colpo di Stato».
Il partito repubblicano ha fatto quadrato attorno a lui. La votazione in seduta plenaria alla Camera ha visto quasi tutti i deputati schierati in base alla disciplina di partito: due blocchi compatti e contrapposti. È l’immagine di un’America che sprofonda in una crisi istituzionale drammatica, di cui l’impeachment è solo un aspetto.
Altrettanto preoccupante è la lettura divergente della Costituzione da parte dei due partiti storici, l’incapacità di riunirsi in difesa di valori comuni, la rinuncia a cercare convergenze in nome dell’interesse nazionale. E questo non accade solo nel mondo della politica. I sondaggi dicono che la società civile assomiglia allo spettacolo offerto dal Congresso. Due Americhe si fronteggiano. Quasi la metà dei cittadini pensa che alla Casa Bianca ci sia un criminale colpevole di aver violato la Costituzione, indegno di rappresentare la nazione e di governarla.
L’altra quasi-metà pensa che l’impeachment sia una rivalsa politica, una vendetta di parte, il tentativo fazioso di cancellare l’elezione del 2016. I media si sono adeguati da tempo, o forse hanno preceduto e alimentato la spaccatura del Paese: i notiziari di Cnn e Msnbc sono colpevolisti da mesi, come lo furono un anno prima per l’indagine Mueller sul Russiagate (in quel caso l’accusa era di collusione Trump-Putin); la Fox News di Rupert Murdoch dà credito all’ipotesi di una congiura di sinistra che insegue una scorciatoia giudiziaria per rifarsi di aver perso la Casa Bianca.
La più antica e potente delle liberaldemocrazie occidentali sprofonda in una crisi che non è solo politica e costituzionale, ma investe il patto di cittadinanza, il discorso pubblico, lo spazio di un dialogo civile.
In questo senso non reggono i paragoni con lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon a dimettersi ancor prima che il Congresso procedesse a destituirlo: allora c’erano tante crisi di coscienza nel partito del presidente; c’erano media rispettati come arbitri imparziali. Qualche affinità c’è invece con la vicenda di Bill Clinton, che vent’anni fa subì l’impeachment ma evitò la condanna finale: allora apparvero i germi di una polarizzazione estrema, di una faziosità che è stata paragonata ad una guerra civile «a bassa intensità», un divorzio valoriale sempre più insanabile tra le due Americhe.
La seconda puntata di questa tragedia va in scena al Senato a gennaio. Anche in quel caso il copione è già scritto. In quel ramo del Congresso sono i repubblicani ad avere la maggioranza. Al momento non c’è ragione di pensare che verrà meno la compattezza della destra. Quindi mancherà quella maggioranza qualificata – due terzi – necessaria perché il presidente incriminato venga condannato, rimosso dall’incarico e sostituito dal vicepresidente. Trump è riuscito in un miracolo, dall’estate del 2015 in cui ufficializzò la sua candidatura: all’inizio venne trattato come un improbabile outsider, un corpo estraneo, irriso o condannato dall’establishment.
Oggi ha ridotto il partito repubblicano a docile strumento; la destra «moderata e rispettabile», quella tradizione repubblicana che si rifà a figure come Abraham Lincoln e Teddy Roosevelt, o più di recente Ronald Reagan e Bush padre, sembra svanita. Trump, pur rimanendo un leader «di minoranza», che non ha mai raggiunto il 50% dei consensi, ha coagulato una nuova base sociale che non sembra disposta a mollarlo. Chi lo votò nel 2016 guarda alla buona salute dell’economia, alle misure prese per castigare la Cina o per limitare l’immigrazione, e potrebbe ri-votarlo il 3 novembre 2020. Il tribunale che conta, alla fine sarà quello.