Un’alleanza rotta con un tweet

Usa-Pakistan – Il presidente degli Usa congela gli aiuti a Islamabad denunciandone l’ambiguità di fronte al terrorismo
/ 22.01.2018
di Francesca Marino

«Gli Stati Uniti hanno stupidamente elargito al Pakistan negli ultimi quindici anni più di 33 miliardi di dollari in aiuti, e in cambio non hanno ricevuto che menzogne e inganni prendendo per stupidi i nostri governanti. Il Pakistan protegge e ospita i terroristi a cui noi diamo la caccia in Afghanistan e in cambio ci dà soltanto un minimo aiuto. Adesso basta!». Parola di Donald Trump che, la mattina di Capodanno, ha deciso di dare via Twitter una metaforica sveglia ai pakistani. Il presidente americano, secondo fonti vicine al Pentagono senza avvertire nessuno e senza averne prima discusso con il suo staff o con i suoi consiglieri, ha scatenato una tempesta mediatica e in seguito diplomatica che ha tenuto banco, sempre via Twitter, per un paio di giorni.

Al tweet di Donald sono infatti seguiti un diluvio di post oltraggiati da parte del Ministro degli Esteri pakistano e per una manciata di ore i rapporti tra i due Paesi si sono giocati – pare – soltanto sul filo dei social media. Sempre secondo le solite fonti i consiglieri di Trump e il Pentagono non erano proprio felicissimi, per usare un eufemismo, della scelta del loro presidente, ma tant’è: ormai la frittata era stata annunciata, e gli Stati Uniti, dopo avere inserito il Pakistan in una watch-list di paesi altamente a rischio per quanto riguarda la libertà religiosa, hanno infine annunciato la sospensione totale degli aiuti militari al Pakistan, circa 1,3 miliardi di dollari l’anno. La sospensione riguarda infatti anche il sostanzioso Coalition Support Fund, che in teoria dovrebbe essere subordinato all’ottenimento di specifici obiettivi da determinare volta per volta.

Le reazioni di Islamabad sono state alquanto scomposte. Si è cominciato con la solita narrativa dell’indignazione e del dolore per essere stati traditi o quantomeno non compresi da un alleato: il Pakistan ha pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane e in termini politici alla lotta al terrorismo, e del terrorismo è stato vittima più di chiunque. Se magari Islamabad questo terrorismo non lo avesse inventato, armato, addestrato e sostenuto le cose sarebbero andate in modo diverso, ma tant’è. La narrativa di cui sopra si è però rivelata più del solito inefficace, e allora si è passati ad altri argomenti: in fondo, dei dollari americani il Pakistan non ha alcun bisogno perché coprivano soltanto in minima parte le spese sostenute per la lotta al terrorismo di cui sopra. Nessuno menziona quanto i servizi segreti e l’esercito spendono ogni anno per finanziare invece i loro pupilli, ma alla fine non importa a nessuno: i finanziamenti, pubblici, alla Jamaat-u-Dawa e alla madrasa di Muridke a cui l’organizzazione fa capo sono visibili anche nel budget dello stato del Punjab. 

Infine, Islamabad ha annunciato una mossa decisiva: ha sospeso la condivisione di informazioni di intelligence con i servizi segreti Usa. Sia chiaro, tanto per quantificare la portata del provvedimento, che le informazioni di intelligence pakistane sono servite, negli anni, praticamente a nulla. Non a catturare bin Laden, non a catturare il mullah Omar o altri pezzi grossi dei talebai o degli Haqqani. Il gioco, cominciato ai bei tempi di George W. Bush e del generale Musharraf, è sempre stato lo stesso: ogni volta che gli americani decidono di fare la voce grossa, Islamabad consegnava un paio di pecorai barbuti spacciati per capi di grosso calibro dei talebani e metteva in piedi una pretesa operazione di pulizia. Dopo aver sgombrato le aree da colpire, si intende. 

Un gioco che tutti i giocatori conoscono perfettamente e che però si trascina da più di quindici anni. Perché negli Stati Uniti, e soprattutto al Pentagono, si è sempre giudicato troppo pericoloso mettere il Pakistan alle strette. L’unico accesso via terra all’Afghanistan, accessibile ai membri della coalizione, passa per il Pakistan. E il Pakistan lo ha già chiuso un paio di volte, costringendo gli Usa a rifornire le truppe per via aerea. Soluzione giudicata troppo costosa anche se, conti alla mano, non lo è affatto.

Inoltre, se Trump non si trovasse alle strette con l’Iran, che costituisce per inciso un pericolo molto minore del Pakistan, gli americani potrebbero utilizzare il porto di Chabahar costruito dagli indiani.

La grande paura, però, è legata alla Bomba pakistana: secondo le solite fonti militari, mantenendo relazioni più o meno produttive con il Pakistan gli Stati Uniti si illudono di mantenere un certo grado di controllo sul nucleare di Islamabad. Non è vero, ma ci credono tutti. Soltanto il tempo dirà se Trump e i suoi intendono davvero cambiare strategia, e se ai tweet di The Donald farà seguito un’azione coerente mirata a risolvere la situazione una volta per tutte. Il che significa aspettarsi, nel breve periodo, una nuova ondata di attacchi terroristici sia in Afghanistan che in India. Scatenare i jihadi «buoni» potrebbe essere, come sempre, un modo per sottolineare ancora una volta quanto Islamabad sia necessaria al mantenimento della pace nella regione.