Il Regno Unito non è più membro dell’Unione europea. Un lungo capitolo di storia si è chiuso con l’accordo della vigilia di Natale tra una Ue mai così compatta e un premier britannico alla disperata ricerca di una via d’uscita da uno stallo infinito. Hanno vinto entrambi, almeno per ora. Bruxelles ha fatto uscire uno dei suoi membri più scomodi senza farsi troppo male: ha concesso un accordo di libero scambio, certo, ma con clausole pesantissime, molti punti ancora da negoziare e un vigoroso ridimensionamento dei fasti a cui Londra aveva accesso con il mercato interno.
Ma la battaglia aveva una componente culturale e simbolica forte e da questo punto di vista anche Boris Johnson è potuto tornare a casa vittorioso, con una soluzione che allontana (almeno in parte) il fantasma delle code alla frontiera con la Francia ma a cui non manca la necessaria patina nazionalista. L’Europa non voleva la concorrenza sleale visto che stava aprendo il suo mercato, il Regno Unito voleva l’indipendenza totale e nessuna stellina europea in giro per le sue istituzioni o per il suo Paese. Hanno vinto entrambi, ma il futuro del Regno Unito è tutt’altro che scontato.
Nella scena politica britannica tutti hanno fretta di chiudere questa partita sanguinosa, compresi i laburisti. In tanti si sono domandati se fosse il caso di votare un accordo che, al di là delle ideologie, rappresenta un danno netto per il Paese, mentre alcuni, a partire dal leader Keir Starmer, hanno scelto di vedere la questione come una soluzione positiva in quanto alternativa al disastroso no deal.
Un giorno qualche storico dovrà analizzare come sia stato possibile da parte di un intero Paese e per un periodo tanto lungo contemplare seriamente il pozzo senza fondo di un esito distruttivo da ogni punto di vista. Gli scozzesi hanno ribadito la loro contrarietà, allargando ulteriormente un divario che sta crescendo pericolosamente, mentre gli euroscettici oltranzisti, che in questi anni non hanno saputo mettere a punto una visione coerente della Brexit, hanno dato il loro assenso ai contenuti del testo, 1254 pagine diventate 80 pagine di disegno di legge, con tanto di 79 pagine di note. La regina ha firmato la legge intorno alla mezzanotte, ventitré ore prima che il periodo di transizione iniziato il 31 gennaio 2020 finisse.
Il deal di Natale riguarda il commercio, mentre diritti dei cittadini, questione irlandese e contributo finanziario per saldare il conto con la Ue erano stati già risolti nell’Accordo di recesso. Sulla pesca è stato deciso che nei prossimi cinque anni e mezzo le quote britanniche aumenteranno del 25% del valore del pescato europeo nelle acque Brit, dopodiché si negozierà anno per anno. I britannici potranno vendere nel mercato interno Ue senza quote e ogni violazione verrà sanzionata con tariffe, ma i pescatori hanno comunque protestato, definendola una resa.
Sulla questione del «level playing field» che permette di scambiare beni senza dazi e investire tra i due paesi, la soluzione è «non di armonizzare» ma di fare in modo che su concorrenza, aiuti di stato, tassazione, lavoro e ambiente venga mantenuto un equilibrio, basato più o meno su quello del momento dell’accordo. In caso di dispute su i sussidi, la questione verrà gestita con un sistema di arbitraggio indipendente, che però non è stato ancora messo a punto e la cui complessità lascia intravedere un futuro di contenziosi.
Ma Londra ha ottenuto quello che voleva: togliersi di torno la Corte Ue. L’accordo commerciale da 660 miliardi di sterline salva la facciata. «Zero dazi, zero quote» è la bella etichetta che gli è stata apposta sopra, «in stile Canada» è il modo in cui è stato caratterizzato. La mente vola alle foglie d’acero e alla rassicurante visione del Paese nordamericano, ma la verità è un po’ diversa: innanzitutto il Regno Unito esporta il 46% dei suoi beni nell’Unione europea e poi quello che può andare bene per due paesi distanti non va bene per due vicini di casa. Il libero scambio è molto meno libero, per le aziende ci saranno 7 miliardi di sterline di nuova burocrazia e controlli: il fatto che i pacchi che vengono inviati all’estero dai privati avranno bisogno di una dichiarazione per la dogana dà la misura di quello che aspetta le imprese, che si sono dovute preparare ad ogni scenario prima dell’accordo del 24 dicembre.
A cadere c’è naturalmente la libera circolazione delle persone. Gli europei che vorranno trasferirsi avranno bisogno di un permesso di lavoro, ottenuto come tutti secondo un sistema a punti «flessibile», con un «percorso privilegiato» per chi lavora nella sanità, pensato per attrarre lavoratori qualificati e dissuadere gli altri. Sarà favorito chi parla bene l’inglese, chi ha un’offerta da un datore di lavoro riconosciuto, chi guadagna almeno 25.600 sterline, ossia 28.350 euro all’anno e chi lavora in settori chiave come l’ingegneria, mentre le porte saranno sbarrate a chi ha più di un precedente penale, anche piccolo, e a chiunque abbia avuto condanne superiori a un anno o sia stato classificato come socialmente pericoloso.
Non ci sarà più riconoscimento automatico delle qualifiche professionali e bisognerà fare domanda per vedersele riconosciute: per medici, ingegneri, architetti e commercialisti sarà un bel problema, anche se il tema è uno dei molti dossier su cui le due parti torneranno a negoziare nei prossimi mesi.
Il Regno Unito ha poi deciso di uscire dal programma Erasmus e di fondarne uno suo, Turing, valido in tutto il mondo. Per il suo prestigioso settore universitario il colpo rischia di essere comunque enorme: fino a ora i 150mila studenti europei nel Paese – ma nell’anno del Covid il numero è già calato – hanno sempre pagato come i britannici, ossia 10mila euro circa in Inghilterra. Chi arriverà nel 2021 dovrà invece avere un visto da studenti da 380 euro se vuole studiare nel Paese più di sei mesi e tra i 10mila e i 13mila euro nel conto per dimostrare di avere fondi sufficienti per potersi mantenere. Dovrà inoltre pagare anche 500 euro all’anno per usare il servizio sanitario e, dopo agosto 2021 si vedrà applicare tariffe tra i 13mila e i 33mila euro all’anno.
Inoltre i viaggiatori che vogliono restare nel Regno Unito più di 90 giorni avranno bisogno di un visto, mentre per i turisti non sarà necessario. La carta d’identità non varrà più come documento per l’espatrio a partire dall’ottobre 2021 per ragioni di sicurezza – sono troppo facili da falsificare – ma la perdita dell’accesso al database di Schengen SIS II sulle persone scomparse o quelle coinvolte in attività terroristiche e i furti di auto e di armi getta un’ombra sulla dichiarazione della ministra dell’Interno Priti Patel secondo cui il Paese sarà più sicuro adesso.
A colpire è il numero di questioni lasciate in sospeso, a partire da quelle fondamentali come lo statuto di Gibilterra e, soprattutto, il problema dei servizi finanziari. Si punta al marzo 2021 per raggiungere un memorandum perché le due parti possano riconoscere l’equivalenza delle rispettive regole per permettere alle imprese finanziarie di operare attraverso il confine.
Ma la Ue vuole far crescere il suo settore, sfruttare l’uscita di scena di Londra e Boris Johnson è stato accusato di non aver saputo tutelare una parte così importante per l’economia britannica. Ma per ora prevale il sollievo per la fine dello stallo. «Abbiamo ripreso il controllo delle nostre leggi e del nostro destino», ha detto Boris, festeggiando il fatto di aver messo il Paese in condizione di accogliere «il salubre stimolo della concorrenza».