Una vittoria difficile da gestire

Elezioni USA - Per i democratici si tratta ora di trovare un accordo tra le varie anime che convivono nel partito
/ 16.11.2020
di Daniele Raineri

La resa dei conti all’interno del partito democratico americano è cominciata lo stesso giorno della vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali, sabato 7 novembre. Non è una metafora. Quel giorno Alexandria Ocasio-Cortez, il volto più famoso dell’ala più radicale dei democratici, ha dato un’intervista di quasi un’ora al «New York Times», il giornale americano più letto del pianeta, per segnalare che la tregua con i moderati era finita. Per mesi lei e gli altri che come lei presidiano le posizioni più a sinistra avevano fatto finta di non esistere e hanno tenuto la testa bassa per non spaventare gli elettori.

Non si poteva rischiare di ripetere il 2016, quando secondo molti commentatori la lotta prolungata fra Hillary Clinton e il senatore Bernie Sanders – molto più a sinistra di lei – aveva favorito la vittoria a sorpresa di Donald Trump e così nel 2020 all’interno dei democratici era stato siglato un compromesso discreto: niente guerriglie fratricide almeno in campagna elettorale, altrimenti vince di nuovo il candidato degli altri. «Fool me once shame on you, fool me twice shame on me», è il detto americano: se mi freghi due volte di seguito allora è colpa mia. Non potevano permettersi un doppio mandato di Trump. Adesso che la possibilità del doppio mandato di Trump non esiste più, se non nella fantasia dei trumpiani, i democratici non hanno più motivo di trattenersi. E si vede.

I moderati del partito rimproverano all’ala radicale l’atteggiamento controproducente, se non proprio suicida. Dicono che questo loro insistere su posizioni troppo estreme allontana gli elettori americani, che sono pragmatici, centristi e non vedono di buon occhio le novità. James Clyburn, il deputato afroamericano con più esperienza alla Camera, è furioso e dice: «Basta con gli slogan. Gli slogan uccidono le persone. Gli slogan distruggono i movimenti». Il suo bersaglio è «defund the police!», togliere i fondi alla polizia, che è una richiesta sentita molto spesso durante l’estate quando in tutto il paese molti americani sono scesi nelle strade per protestare contro la brutalità della polizia nei confronti degli afroamericani. Alcuni tra i manifestanti dicevano «Abolire la polizia», altri dicevano «togliere i fondi alla polizia», il sindaco democratico di Minneapolis fu cacciato dalla piazza perché si rifiutò di garantire che avrebbe tolto i fondi al dipartimento di polizia. Era diventato un test di purezza: se non acconsenti, allora vuol dire che non sei affidabile. Clyburn, che è afroamericano, dice che questo tipo di ricatti sono una stupidaggine e che sono costati alcuni seggi al partito democratico, perché per quanto siano seducenti nelle piazze poi non funzionano con il grosso dell’elettorato – che vuole la polizia.

«Quando chiedi a qualcuno: perché vuoi togliere i fondi alla polizia quello di solito risponde: non è quello che intendevo, adesso ti spiego meglio. Ma in politica il momento in cui devi spiegare meglio cosa intendevi è il momento in cui cominci a perdere», continua Clyburn. Del resto l’ala radicale del partito democratico deve fare i conti con la realtà: alle primarie si sono presentati candidati molto più giovani, arrabbiati e a sinistra di Joe Biden, ma si sono sfasciati contro l’indifferenza dell’elettorato democratico. Quello che funziona su Twitter e nelle piazze non funziona quando è il momento di contare i voti. E infatti Biden aveva buon gioco durante la campagna a rispondere che lui non era per nulla «socialista»: «Io sono quello che i socialisti li ha sconfitti», diceva. E anche così non è bastato perché molti latinos che in teoria non dovrebbero sopportare Trump lo hanno votato lo stesso pur di non votare «a sinistra».

Dall’altra parte Ocasio-Cortez, che esercita un carisma irresistibile sui progressisti, il senatore Bernie Sanders, che controlla un pacchetto enorme di voti popolari, e gli altri dicono che i seggi persi dal partito non sono colpa delle idee, ma del modo sciatto e obsoleto di fare campagna elettorale dei democratici. «Se spendi duemila dollari su facebook durante la campagna invece che duecentomila», dice la giovane deputata, allora vuol dire che non hai capito nulla di come funziona adesso la politica e dare la colpa a noi è senza senso. L’ala radicale accusa gli altri di essere «corporate democrats», democratici che fanno gli interessi delle grandi aziende, e di non voler spaventare gli elettori trumpiani – e questo, dicono, è l’opposto di quello che gli americani ci hanno chiesto con il loro voto. Pensano a temi come la copertura sanitaria pubblica e universale e la trasformazione profonda dell’economia per rallentare il climate change.

Il problema, per entrambe le fazioni dei democratici, è che le elezioni non si sono ancora chiuse. Il 5 gennaio ci saranno i ballottaggi per il Senato in Georgia e sono cruciali perché decideranno chi avrà la maggioranza. Se vincono i repubblicani, potranno ostacolare le leggi dell’Amministrazione Biden. Se vincono i democratici cadono tutti gli ostacoli: avranno allo stesso tempo il controllo della Casa Bianca e del Congresso. Ma se cominciano a litigare di nuovo quest’occasione nei prossimi due mesi potrebbe sfuggire loro dalle mani.