L’inquinamento che arretra in modo spettacolare. La censura che avanza implacabile, affiancata da forme sempre più sofisticate di bio-mappatura e controllo su noi umani, affidate all’intelligenza artificiale. Un Blade Runner dai cieli azzurri, futuro distopico (e dispotico) ma senza le pioggie acide del cult-movie di Ridley Scott. Delle impressioni fortissime e contraddittorie mi assalgono al mio ritorno in Cina dieci anni dopo. Per esempio quando mi sento un provinciale primitivo quando azzardo il gesto di pagare con quel pezzetto di plastica che chiamiamo carta di credito, anacronistica, pateticamente superata.
Ho iniziato la scorsa settimana, nella prima puntata di questo diario, un primo bilancio di tutti questi cambiamenti avvenuti dal luglio 2009, quando chiusi la mia esperienza quinquennale di corrispondente a Pechino per rientrare negli Stati Uniti. La mia recentissima visita nella capitale cinese l’ho usata proprio per questo: stilare un elenco di tutti i campi in cui la Cina ha realizzato trasformazioni spettacolari, positive o negative. Abbondano, nei due segni.
Il futuro è già la Cina. Ci penso quando faccio un viaggio da Pechino a Tianjin, la città portuale più vicina alla capitale, con 16 milioni di abitanti e un curioso passato italiano (la ricevemmo come premio per aver partecipato alla guerra dei Boxer, vi abbiamo comandato noi, lasciando anche un’impronta architettonica, dal 1900 alla Seconda guerra mondiale). Ci torno 15 anni dopo la mia prima visita per ammirare un centro culturale avveniristico, con una meravigliosa biblioteca pubblica dal design spaziale, realizzata da architetti olandesi. Fra Pechino e Tianjin ogni ora sfreccia un «bullet-train», uno di quei treni ad alta velocità che ormai raggiungono tutte le grandi città cinesi.
Quando lasciai la California nel 2004 per trasferirmi in Cina, si stava discutendo della costruzione della prima linea ferroviaria ad alta velocità in America, che dovrebbe collegare San Francisco a Los Angeles. Se ne discute ancora adesso. Nelle infrastrutture gli Stati Uniti sprofondano, cascano a pezzi; la Cina sfavilla di modernità (a breve aprirà il nuovo mega-aeroporto di Pechino; l’ultimo fu inaugurato nel 2008).
Ci eravamo distratti per un attimo e qualcuno tra noi ancora pensa che i cinesi «ci copiano». Il furto di know how, lo spionaggio industriale, il saccheggio di tecnologie occidentali resta una realtà; ma non esaurisce la spiegazione di quel che è accaduto. Un pezzo di questa economia ha sorpassato l’America, che se ne rende conto di colpo e tenta di correre ai ripari quando forse è troppo tardi. Un punto di svolta è stato certamente la crisi economica del 2008-2009: sia perché ha concentrato l’attenzione dell’Occidente e ci ha resi meno attenti a quel che avveniva lontano da noi; sia perché quella crisi ha dato a Xi Jinping la certezza che il sistema autoritario è più efficiente della liberaldemocrazia nel governare l’economia e la società. Ma se noi occidentali ci siamo distratti, e abbiamo sottovalutato il balzo in avanti dei cinesi, non è solo colpa nostra.
Questa Cina non si lascia osservare, esplorare e raccontare facilmente. Ha eretto barriere più alte che ostacolano la circolazione di notizie e di idee nei due sensi. Loro subiscono la censura a casa propria, ma anche noi abbiamo sofferto di una rarefazione delle informazioni. L’elenco dei colleghi americani a cui hanno negato visti d’ingresso si allunga e include alcuni tra i massimi esperti della Cina come Nicholas Kristof del «New York Times»; e colui che fu il mio mentore, l’ex rettore della facoltà di giornalismo di Berkeley, Orville Schell. Il caso di Schell è particolarmente assurdo: fu uno dei più grandi giornalisti americani esperti della Cina, su cui scrisse libri che restano tuttora dei punti di riferimento obbligatori; è sposato con una cinese; dirige la sezione cinese nel think tank Asia Society a New York. Negargli un visto è una vendetta, un castigo, che lo priva della possibilità di aggiornarsi sul terreno.
Come lui sono colpiti regolarmente tanti sinologi: o scrivono cose gradite a Pechino, oppure il regime gli nega l’accesso al Paese che è l’oggetto dei loro studi. Si capisce che la nostra conoscenza della Cina debba superare ostacoli notevoli, eretti volutamente per farci sapere solo quello che vogliono loro. Nei giorni della mia ultima visita un ulteriore elemento di tensione e preoccupazione riguarda i diplomatici canadesi arrestati. Si tratta senza ombra di dubbio di una vendetta legata al caso Huawei. Dal dicembre scorso è agli arresti domiciliari in Canada la direttrice del colosso cinese delle telecomunicazioni, nonché figlia del fondatore. È stata arrestata su richiesta del Dipartimento di Giustizia di Washington, accusata di aver violato le sanzioni contro l’Iran. La vicenda s’intreccia con l’embargo contro Huawei che gli Stati Uniti cercano di imporre anche ai propri alleati europei, per il sospetto che la tecnologia cinese nella telefonìa 5G sia un cavallo di Troia dello spionaggio. Lo scontro è Usa-Cina, però Xi Jinping ha deciso in questa prima fase di infierire sui canadesi, calpestando l’immunità diplomatica con gli arresti.
Quando lasciai la Cina, vigeva ancora il principio di una direzione collegiale ai vertici del regime. L’allora presidente Hu Jintao era una figura grigia. L’avvento di Xi ha cambiato tutto: questo presidente è una star, gestisce la propria immagine come un leader occidentale, perfino la First Lady è una celebrity. Ha sgominato la maggior parte dei suoi avversari interni, spesso colpendoli con accuse di corruzione e pesanti condanne. Ha fatto cambiare la Costituzione per iscriverci il suo nome (un onore riservato al fondatore del regime, Mao Zedong). Ha fatto abrogare ogni limite al suo mandato. È dai tempi di Deng Xiaoping che un leader cinese non concentrava un tale potere nelle proprie mani. La sua legittimità lui la costruisce intorno a una narrazione iper-nazionalista: la Cina si afferma come una superpotenza senza più remore nell’esibire un progetto egemonico; cancella per sempre il «secolo delle umiliazioni» aperto dalla guerra dell’oppio. Tutto questo piaceva moltissimo ai cinesi, soprattutto nella fase iniziale dell’ascesa di Xi.
Vera culla del sovranismo, anche sul piano politico la Cina ci ha preceduti in molti esperimenti. Per esempio la religione riscoperta e valorizzata come pilastro nella ricostruzione di un’identità nazionale forte. In questa Pechino che fu la culla dell’ateismo di Stato ai tempi di Mao Zedong, oggi visito templi buddisti sempre più affollati, con la benedizione ufficiale di Xi Jinping (anche Confucio, il profeta laico, è stato arruolato con la stessa funzione). Da Israele – oltre alla tecnologia della videosorveglianza e dei controlli biometrici – questa Cina ha mutuato un’altra idea: finanzia viaggi di «scoperta delle proprie radici» ai giovani cinesi della diaspora, un regalo costoso ma lungimirante, per garantire che la vasta comunità d’oltremare (ormai quasi cento milioni fra emigrati ed espatriati temporanei) sia partecipe dello stesso revival nazionalista della madrepatria.
Sul destino delle minoranze etniche ho un punto d’osservazione ravvicinato; e alternativo? I miei tre figli adottivi, Sanza, Cheghe e Seila, sono degli Yi del Sichuan: fisicamente più simili ai tibetani o ai mongoli; con la pelle dal colore più scuro degli Han (il ceppo della maggioranza cinese). Il nostro primo incontro avvenne 13 anni fa nel loro villaggio di montagna, Jiudu, nella contea di Xichang. Quando lo visitai mancavano le fognature, le strade erano sterrate, molte case non avevano luce né acqua corrente. I tre ragazzi sono ormai ventenni e la loro vita ha avuto una svolta nelle grandi città. Sono rimasti affezionati alle radici, amano tornare al villaggio natìo in occasione delle feste tradizionali in costume etnico. Mostrano con orgoglio le foto delle loro visite. Il governo cinese ha investito nella modernizzazione di quelle zone remote e povere.
Le strade sono asfaltate, le loro casupole semi-abbandonate hanno ricevuto un intervento pubblico di restauro. In quanto orfani e membri di una minoranza etnica, Sanza, Cheghe e Seila hanno diritto a un assegno mensile, un reddito di cittadinanza. Le vie del consenso in un regime autoritario sono molteplici: includono la costruzione di un Welfare; la sicurezza; la lotta alla corruzione a colpi di condanne esemplari; l’esportazione delle sovraccapacità (manodopera, acciaio e cemento) con le Nuove Vie della Seta. In fatto di nazionalpopulismo, quello di Xi Jinping viene da lontano; ha i muscoli gonfiati con gli steroidi.
Molti segnali sembrano preannunciare che stiamo entrando in una nuova guerra fredda. L’America sta vivendo un altro «momento Sputnik»: così fu definito lo shock del 4 ottobre 1957 quando l’Unione sovietica riuscì a mettere in orbita il primo satellite (chiamato Sputnik, appunto). Il sorpasso sugli Stati Uniti nella corsa allo spazio era inatteso, scosse gli americani che si consideravano superiori; li costrinse a correre ai ripari accelerando e potenziando i loro programmi spaziali. Oggi in alcune tecnologie come la telefonìa mobile di quinta generazione e l’intelligenza artificiale la Cina ha i suoi Sputnik. Ancora una volta, come 62 anni fa, l’America deve risvegliarsi dal suo torpore e scoprire che rischia il sorpasso. Ma la sfida con l’Urss si svolgeva tutta sul terreno strategico-militare, dalle bombe atomiche ai missili (lo spazio era un luogo di esercitazione e simulazione per vettori uttilizzabili anche a scopi bellici). Con la Cina la sfida è a 360 gradi. L’economia cinese ha dimensioni ormai eguali a quella americana, mentre l’economia russa rimase sempre inferiore e in certi settori sottosviluppata.
L’Europa è al bivio perché a differenza dalla prima guerra fredda, la sua economia è molto più integrata con quella cinese. Insieme all’orgoglio avverto tra i miei amici cinesi anche tante inquietudini: alcuni temono che Xi stia contribuendo proprio a quella «trappola di Tucidide» che dice di voler evitare.