Due aerei partiti contemporaneamente da Kiev e da Mosca – i primi voli diretti in anni – con a bordo di ciascuno 35 prigionieri liberati dalle prigioni dei rispettivi Paesi: il primo grande scambio di ostaggi tra russi e ucraini in cinque anni di guerra avvenuto il 7 settembre scorso, ha assunto i contorni di un’operazione da spy story, accentuata dal fatto che le poche foto dei russi rientrati li mostravano con i volti coperti dalla sgranatura, che metteva ancora più in risalto i loro fisici scolpiti, da militari delle forze speciali. Il rimpatrio degli ucraini invece è diventato una festa nazionale, con il presidente Vladimir Zelensky che, dopo aver twittato «I nostri sono a casa!» è corso all’aeroporto ad abbracciarli. La liberazione dei 24 marinai militari ucraini sequestri dai russi nell’incidente dello stretto di Kerch, nel novembre scorso, del regista crimeano Oleg Sentsov – riconosciuto un detenuto politico e insignito dal Parlamento Europeo del Premio Sakharov – e di altri prigionieri era stata una promessa elettorale del nuovo presidente, e il loro ritorno a casa consolida ulteriormente la posizione di Zelensky, che in poco più di 100 giorni ha già conquistato la maggioranza assoluta nella nuova Rada e nominato un nuovo governo senza concedere nulla all’opposizione.
Resta da capire perché il Cremlino ha concesso a Zelensky una tale apertura di credito, considerando che il nuovo leader ucraino non sembra, nonostante le accuse dei suoi critici, incline a concedere qualcosa a Mosca: «Questo è il primo passo, poi proseguiremo a tracciare la linea di divisione tra le truppe nel Donbass, pezzo dopo pezzo, fino alla restituzione completa dei territori occupati dalla Russia», ha promesso. Un gesto di buona volontà per far ripartire il processo negoziale di Minsk con un partner meno ostile di Petro Poroshenko, è la spiegazione ufficiale dei portavoce del Cremlino.
I giornali indipendenti hanno però indicato un altro aspetto della lunga e tormentata trattativa sullo scambio di prigionieri: Kiev è stata costretta a liberare Vladimir Zemakh, un guerrigliero separatista del Donbass considerato testimone chiave dell’abbattimento del Boeing malese nel luglio 2014, quando comandava un distaccamento missilistico russo. La magistratura olandese (la maggior parte delle 298 vittime sull’aereo partito da Amsterdam alla volta di Kuala-Lumpur era dei Paesi Bassi) ha chiesto a Kiev di non estradare un testimone così prezioso, ma lo stesso Zelensky ha ammesso che senza Zemakh Mosca avrebbe cancellato lo scambio.
Un’altra chiave di lettura dell’improvviso «favore» fatto da Vladimir Putin a Zelensky è da cercare nei risultati delle elezioni amministrative di domenica 8 settembre a Mosca, Pietroburgo e altre città russe. Nella capitale, gli oppositori hanno conquistato 22 seggi su 45, una maggioranza mancata per poche decine di voti nella Duma di Mosca: formalmente, una mancata vittoria che però i liberali e il loro leader Alexey Navalny festeggiano come un trionfo, dopo mesi di arresti, manifestazioni con centinaia di fermi, manganelli, perquisizioni e minacce agli attivisti. I candidati più forti di Navalny non hanno potuto nemmeno registrarsi nelle liste elettorali, espulsi con pretesti di vario genere. I brogli e i trucchi per manipolare il voto sono stati numerosi e documentati, ma nonostante questo i candidati del potere hanno subito in metà delle circoscrizioni una sonora sconfitta.
A Pietroburgo il candidato governatore putiniano Beglov ha vinto per il rotto della cuffia, tra manipolazioni elettorali palesi, ma alcuni candidati liberali sono riusciti a entrare nel parlamento cittadino.Merito della campagna di Navalny, svolta quasi interamente in Internet, feroce, chiara e ben organizzata, che alternava rivelazioni sulla corruzione dei candidati governativi – il capo del partito Russia Unita della capitale, Metelskij, ha perso dopo le rivelazioni sulla sua catena di alberghi di lusso in Austria – al cosiddetto «voto intelligente», un’invenzione di Navalny per convogliare lo scontento sull’oppositore con più chance. Una tattica che gli ha attirato molte critiche in quanto la maggioranza dei candidati indicati erano comunisti, ma che si è trasformata in un attacco senza precedenti alle istituzioni del regime.
L’affluenza al voto è stata bassissima, intorno a un quinto degli aventi diritto quasi ovunque. La maggior parte dei russi ha votato con i piedi e, considerato che i sondaggi da mesi ormai registrano una caduta a picco della popolarità del Cremlino, gli spin-doctor governativi non hanno incitato a recarsi alle urne, preferendo manipolare lo zoccolo duro dei loro sostenitori, soprattutto dipendenti pubblici come insegnanti e burocrati. Gli esponenti di Russia Unita non hanno presentato nemmeno una lista, candidandosi tutti come «indipendenti» per non mostrare nelle schede un logo che avrebbe suscitato solo odio. La risposta positiva degli elettori al «voto intelligente» di Navalny però ha mostrato che lo scontento da diffuso può diventare organizzato e guidato, e che il regime è vulnerabile agli strumenti della democrazia, nonostante sia limitata da censura e repressione poliziesca.
E questo potrebbe spiegare anche l’improvvisa apertura verso l’Ucraina. La situazione domestica, con la crisi economica e uno scontento ormai a malapena gestibile, non permette a Putin di mantenere aperto un fronte di guerra. La retorica bellicosa, che negli anni precedenti aveva pagato elettoralmente, ora sembra suscitare soltanto rabbia, e le gesta «geopolitiche» appaiono un lusso. La riapertura del negoziato di Minsk con Zelensky, Macron e Merkel, con la possibile cooptazione di Trump come chiesto dal leader di Kiev, permetterebbe al Cremlino di concentrarsi sul fronte interno. Più che di nuove guerre Mosca ha oggi un bisogno disperato di uscire dall’isolamento internazionale, alleviare le sanzioni, attirare gli investimenti e riconquistare un consenso che permetta al regime di porsi degli obiettivi e non soltanto di lavorare per la propria sopravvivenza.