«Impedite che continui a marciare questa atea macchina da guerra!». Così scrivevano i ragazzi della Weisse Rose – la Rosa bianca – nei volantini che affiggevano o distribuivano nelle cassette postali, sui mezzi di trasporto e nelle aule universitarie. La loro temeraria propaganda intessuta di valori cristiani non invitava alla violenza ma alla resistenza passiva. Furono sei i volantini diffusi a Monaco, nel resto della Baviera, in Austria e ad Amburgo, un settimo fu sequestrato dopo la cattura degli autori, prima che lo potessero distribuire. La Weisse Rose fiorì nel giugno del 1942 e appassì per sempre otto mesi più tardi, quando i giovanissimi animatori di quel movimento di opposizione pacifica al regime nazista finirono sulla ghigliottina.
Alcuni di loro sopravvissero. L’ultima fra i superstiti, Traute Lafrenz (nella foto piccola, da Wikipedia), è morta il 6 marzo scorso negli Stati Uniti. Stava per compiere 104 anni, la sua lunghissima vita fu sottratta alla ferocia hitleriana dalla fine della guerra. Avrebbe certamente condiviso il destino dei suoi compagni se nell’aprile del 1945 le truppe americane che stavano avanzando in Germania non avessero liberato Bayreuth, la città sacra a Wagner. Proprio a Bayreuth l’allora ventiseienne Traute era stata incarcerata e il suo destino stava per compiersi nel più brutale dei modi: tre giorni dopo la liberazione della città doveva aprirsi un processo che si sarebbe certamente concluso con la sua condanna a morte.
Gli altri animatori della Weisse Rose, a cominciare da Sophie Scholl e suo fratello Hans, erano stati decapitati nel febbraio del 1943. Avevano ventidue e venticinque anni, stupirono i carnefici e le guardie del carcere di Stadelheim per la disinvolta fermezza con cui affrontarono il supplizio. I fratelli Scholl e i loro compagni non avevano ucciso nessuno, quella che avevano concepito e messo in atto era stata un’azione non-violenta, non avevano fatto altro che distribuire i volantini con cui cercavano di convincere il popolo tedesco della disumanità del progetto nazista inducendoli a opporvisi non con le armi ma con il sabotaggio. Erano studenti dell’università Ludwig Maximilian di Monaco, quella stessa che oggi prospetta la sua sede centrale sulla Geschwister Schollplatz, la grande piazza intitolata proprio a Hans e Sophie Scholl.
I compagni di studi furono i principali destinatari dei loro messaggi: soprattutto agli universitari era diretta quella campagna di persuasione. Il sogno di risvegliare le coscienze s’interruppe proprio nel grande atrio dell’ateneo bavarese. Incurante del rischio, Sophie era salita sulla balconata sovrastante e da lassù aveva gettato le ultime copie del sesto volantino. Fu un’imprudenza fatale. Era il 18 febbraio del 1943, un bidello la vide e la bloccò assieme a Hans mentre cercavano di uscire dall’edificio. Dopo poco erano nelle mani della Geheime Staatspolizei (Gestapo), da mesi scatenata alla loro ricerca. Nei giorni successivi furono catturati altri componenti del gruppo, come gli studenti Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf e un professore, il musicologo Kurt Huber che aveva redatto uno dei manifesti. Saranno tutti rapidamente processati e decapitati.
La Gestapo era furiosa. Sei volantini erano stati diffusi senza che l’oliatissimo meccanismo della polizia segreta potesse acciuffare i responsabili. Vi si enunciavano principi di condanna della violenza di Stato, che alcuni fra quei giovani avevano potuto personalmente verificare sui vari fronti di guerra. Sophie, che aveva lavorato come infermiera volontaria, era stata testimone di numerosi casi di eutanasia forzata al servizio dell’eugenetica. Nonostante queste tremende esperienze, la Weisse Rose fu tutt’altro che un movimento di lotta armata. Nel gruppo erano rappresentati cristiani delle varie confessioni: cattolici, protestanti, ortodossi. I loro messaggi erano ricchi di citazioni che spaziavano dalla Bibbia ad Aristotele, da Rilke a Heine, da Goethe a Schiller.
Per quel regime stupido e feroce gli autori di simili richiami alla più alta tradizione culturale non erano altro che nemici e traditori. Per sistemare i conti con quelle «teste calde» fu spedito a Monaco Roland Freisler, il «giudice boia» di Hitler, che inscenò un altro dei suoi tragici processi-farsa fondati sul presupposto che gli imputati erano pregiudizialmente colpevoli. Secondo la caratteristica ritualità poliziesca del regime, quei ragazzi furono interrogati e spietatamente torturati non tanto per acquisire elementi di giudizio in vista di una condanna a morte che in pratica era già stata pronunciata, quanto per far luce sulle possibili ramificazioni del gruppo. I guardiani del nazismo cercavano gli altri petali della Rosa.
Per esempio indagavano su un gruppo parallelo che si era costituito ad Amburgo. Fra Monaco e Amburgo furono quindici i militanti condannati a morte, trentotto quelli colpiti da lunghe pene detentive felicemente interrotte dal crollo militare del Terzo Reich. Alcuni pagarono con il carcere l’imperdonabile colpa di avere raccolto fondi per soccorrere la famiglia di Probst, che aveva lasciato la moglie e tre figli. Proprio ad Amburgo, dov’era nata, operava Traute Lafrenz, una studentessa di medicina seguace della dottrina antroposofica di Rudolf Steiner. Trasferitasi a Monaco vi aveva conosciuto Probst e i fratelli Scholl, aderendo entusiasticamente alla Weisse Rose. Fu lei a portare ad Amburgo il sesto volantino e a organizzarne la distribuzione.
Dopo l’esecuzione di Hans e Sophie, Traute fu di nuovo a Monaco e nonostante la vigilanza poliziesca fu presente al funerale consentito come esca per individuare quella cerchia di nemici della svastica. Ma dopo poche settimane fu arrestata e condannata a un anno di carcere per complicità. Più tardi la Gestapo poté ricostruire l’insieme del suo lavoro nel movimento e le nuove pesantissime imputazioni l’avrebbero sicuramente portata alla morte. Ma i liberatori arrivarono in tempo a Bayreuth. Due anni dopo Traute si trasferì negli Stati Uniti dove completò gli studi di medicina, acquisì la cittadinanza americana, divenne una paladina dell’antroposofia, si sposò e mise al mondo quattro bambini. È sempre stata restia a parlare del suo passato, ma nel 2019, al compimento del centesimo anno, fu decorata con l’Ordine al merito della Repubblica federale di Germania.