Una rivoluzione è possibile?

L’Iran ha conosciuto ondate di protesta anche nel recente passato ma, dice l'esperto Francesco Mazzucotelli, questa volta è diverso
/ 31.10.2022
di Romina Borla

Il quarantesimo giorno dal decesso è importante nel contesto della fede islamica. È il momento in cui l’anima si distacca dal corpo e va, si spera, in paradiso. Settimana scorsa, nel quarantesimo giorno dall’uccisione di Mahsa Amini – la 22enne morta tre giorni dopo il suo arresto da parte della Polizia morale per non aver indossato bene il velo islamico – diverse migliaia di persone si sono date appuntamento a Saqqez, la città nel Kurdistan iraniano dov’è sepolta. Hanno onorato la sua memoria e ribadito quella che è diventata una sfida al regime teocratico dominante. Regime che non ha esitato, ancora una volta, a sparare sulla folla.

L’Iran ha conosciuto vasti movimenti di protesta anche nel recente passato. A dare fuoco alla miccia sono stati, di volta in volta, elementi diversi. Nel 2009 i brogli elettorali, che hanno permesso la vittoria del conservatore Ahmadinejad. Nel 2017 la crisi economica e la delusione nei confronti delle politiche economiche adottate dal presidente Rouhani; mentre nel 2019 la rivolta è scaturita dal malcontento nei confronti dell’aumento esorbitante dei prezzi del carburante. In tutti i casi le contestazioni si sono allargate, trasformandosi in critica al potere costituito, a un regime ritenuto oppressivo e incapace di trovare soluzioni concrete ai problemi degli iraniani. Dal canto loro le autorità hanno sempre reagito con brutalità, reprimendo con ogni mezzo il dissenso: aprendo il fuoco sui dimostranti, arrestandoli, oscurando i social media.

Adesso è la volta delle donne che chiedono diritti e libertà (anche se la protesta si è allargata, coinvolgendo larghi strati della popolazione, dai lavoratori del settore petrolifero ai professori, dai liberi professionisti ai genitori). Ma, secondo Francesco Mazzucotelli, che insegna Storia del Vicino Oriente all’Università di Pavia, c’è uno scarto rispetto al passato: «Nelle manifestazioni di queste settimane si osserva una radicalizzazione inedita delle forme e dei contenuti, lo hanno messo in evidenza molti analisti. Mentre nelle precedenti ondate di contestazione c’era ancora la speranza di essere ascoltati dal sistema politico dominante, ora c’è solo disperazione. Chi scende in piazza crede infatti che il dialogo non sia più possibile e che il sistema non sia più riformabile. Intanto le autorità di Teheran considerano qualsiasi tipo di dimostrazione una minaccia per la sicurezza dello Stato e rispondono con violenza sempre maggiore». Il secondo punto da evidenziare, secondo l’esperto, è l’età dei manifestanti: «Alla testa dei cortei ci sono soprattutto giovanissime e giovanissimi. Una generazione diversa da quella che ha animato le dimostrazioni del 2009. Ragazze e ragazzi cresciuti negli ultimi 20 anni, con aspirazioni e modelli di riferimento in linea con quelli del mondo globalizzato. Abili nell’utilizzo di Internet e dei social, profondamente scontenti di un sistema bloccato e sordo alle loro richieste».

L’Iran ha caratteristiche storiche, politiche ed economiche diverse dalla maggioranza dei Paesi arabi – continua l’intervistato – ma in quello che sta succedendo si possono trovare delle similitudini con le cosiddette Primavere arabe. «Pensiamo alla Tunisia e a Bouazizi, il venditore ambulante che nel 2010 si è dato fuoco per protesta, dando l’avvio alle agitazioni che hanno portato alla destituzione di Ben Ali. Il gesto di quel ragazzo ha insomma fatto esplodere una situazione problematica che si trascinava da tempo. Come la morte di Mahsa Amini in Iran, un Paese che versa in una situazione di grande debolezza, retto da un sistema sempre più corrotto e ripiegato su sé stesso». Teheran sta affrontando dal 2018, anno del ritiro unilaterale degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano, una grave crisi economica, aggravatasi con la pandemia di Covid. Senza contare le continue sanzioni, l’isolamento internazionale, l’inflazione galoppante ecc. Mentre la Guida suprema, l’anziano ayatollah Ali Khamenei, è in condizioni di salute critiche, e il Governo intransigente di Ebrahim Raisi dà nuova linfa a entità quali la Polizia morale iraniana. «Una larga fetta di popolazione, come detto, non si riconosce più in questo sistema e scende nelle strade perché non ha più nulla da perdere».

Una rivoluzione in Iran è dunque possibile? In queste settimane si sono sentite molte voci, slogan forti («donne, vita e libertà» e «morte al dittatore»), appelli al superamento del modello politico attuale, quello della Repubblica islamica. Quanto questo sia possibile è tutto da vedere, afferma Mazzucotelli. Le ragioni sono diverse. La prima è che parte della società iraniana – per tradizione o per interesse – vede con favore il sistema esistente. Un altro punto da considerare, dice il nostro interlocutore, è il ruolo dei Pasdaran o Guardiani della Rivoluzione, una formazione creata dopo la Rivoluzione islamica del 1979 che funge da milizia, controllo del territorio, esercito parallelo e attore economico importante (fondazioni). «I Pasdaran hanno assunto una posizione estremamente rigida: desiderano che il clero sciita faccia un passo indietro per preservare lo status quo. Il rischio è dunque quello di una trasformazione ancora più autoritaria e repressiva del sistema. Insomma, meno uomini col turbante e meno leader religiosi ma più militari».

Quello dell’Iran – continua l’esperto – è un modello politico ibrido e complicato, difficile da riformare: ci sono organi eletti più o meno democraticamente (Governo, Parlamento, presidenza della Repubblica) e altri «religiosi». Questi ultimi mantengono una sorta di controllo sui primi. Anche presidenti moderati, come Khatami e Rouhani, hanno avuto poche possibilità di influire su una serie di scelte politiche. Come trovare una nuova via? «Consideriamo che le proteste in corso non hanno un leader e un’organizzazione specifica. Se da un lato questo è positivo – è impossibile eliminare la testa del movimento, mettendo fine alla contestazione – dall’altro è negativo: manca un coordinamento politico che possa esprimere un progetto politico chiaro a lungo termine».

Questo problema, osserva Mazzucotelli, è emerso anche nelle rivolte scoppiate dal 2010 in Nord Africa, si pensi all’Egitto e alla Tunisia: moti che rovesciano il potere, che mettono tutto in discussione, ma poi il cambiamento non riesce, riesce solo temporaneamente o in parte perché non ci sono le condizioni che permettono di creare un sistema diverso. «Tornando all’Iran, se le proteste continuassero e nel frattempo emergessero figure carismatiche in grado di guidare il dissenso, allora si potrebbe dire che è in campo una possibilità di cambiamento. In ogni caso le manifestazioni in corso indeboliscono ancora di più il regime esistente, che è forse al punto più basso della sua credibilità e legittimità interna».

Intanto l’Occidente ha varato nuove sanzioni in risposta alla notizia dei droni iraniani usati dai russi nel conflitto in Ucraina. «Questo aumenta la distanza con gli Usa e l’Occidente e rende più difficile il cammino della diplomazia internazionale in merito al nucleare. Ricordo che Teheran, come del resto la Turchia, ha un rapporto particolare con la Russia. Non si tratta di un’alleanza d’amore ma di convergenza di interessi. Comunque, come si è visto in Siria, Teheran cerca di marcare delle differenze, non intende farsi stringere nella morsa di un’alleanza troppo stretta con Mosca. È da vedere quanto il Governo iraniano – in un momento di forte instabilità – riuscirà a sganciarsi da Putin».