Una partita contro l’America

Russia – Mosca (e Pechino) sono i soli alleati della Corea del Nord, tuttavia i test nucleari di Pyongyang sono visti con preoccupazione da entrambe le potenze, che però non vogliono, per interessi e calcoli diversi, il crollo di Kim
/ 18.09.2017
di Anna Zafesova

La Corea del Nord non può dotarsi di armi nucleari, ma nello stesso tempo le «sanzioni sono inutili e inefficaci», la «pressione militare per portare i coreani in un vicolo cieco» è impraticabile e Pyongyang «non rinuncerà mai all’atomica, al costo di dover mangiare erba»: la posizione di Vladimir Putin nei confronti della crisi intorno al nucleare coreano appare a prima vista abbastanza contraddittoria. L’unica soluzione, secondo il presidente russo, «è il dialogo» con Kim Jong-un, e Mosca si è allineata con Pechino – forse per la prima volta nella storia della diplomazia seguendo la scia di un partner invece di voler essere il leader di una coalizione – nel sostegno alla proposta del «doppio congelamento»: stop contemporaneo del programma nucleare di Pyongyang e delle manovre militari congiunte di Washington e Seul, in attesa di avviare un negoziato i cui termini, tempi e luoghi sono ancora tutti da stabilire.

La diplomazia russa opera su più fronti, e mentre la TV di Stato manda in onda una serie di reportage su quanto sia bella la vita dei nordcoreani sotto la dinastia dei Kim, Putin incontra i leader dei Paesi potenziali bersagli del dittatore di Pyongyang, il presidente sudcoreano Moon Jae-in e il premier giapponese Shinzo Abe, con i quali si dichiara «in piena sintonia». Mosca si propone come mediatore e garante nella crisi, un ruolo che aveva già provato a svolgere diverse altre volte negli ultimi 20 anni: in Iraq con Saddam Hussein, con Bashar al-Assad in Siria, con Slobodan Miloscevic in Serbia e con la stessa Corea del Nord in passato. In tutti i quattro casi non aveva funzionato, secondo i russi per colpa dell’aggressività del militarismo americano, secondo gli osservatori occidentali perché la Russia o non aveva più sufficienti strumenti di influenza politica ed economica sugli alleati ereditati dall’Unione Sovietica, o non aveva voluto utilizzarli (nel caso della Siria, infatti, Mosca ha finito per allearsi con Damasco, abbandonando pretese di neutralità).

Le recenti rivelazioni del «Washington Post» sul drastico aumento delle forniture, attraverso società di comodo, di petrolio russo e altri merci alla Corea del Nord, e i sospetti del governo britannico, rivelati dal «Sunday Telegraph», sulla complicità di Mosca e Teheran nell’aver fatto arrivare a Pyongyang tecnologie nucleari e missilistiche che ora minacciano il mondo, non fanno che aumentare i sospetti sull’imparzialità del Cremlino. Che infatti ha insistito per smorzare le sanzioni sull’esportazione di idrocarburi verso la Corea del Nord nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu votata qualche giorno fa: non tanto per calcoli economici – le forniture russe si aggirano su pochi milioni di dollari – quanto per mantenere un canale di influenza e complicità con il regime.

Nella crisi intorno alla Corea del Nord «la Russia persegue innanzitutto i propri interessi», chiarisce il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Che non sono quelli di cautelarsi contro una potenziale minaccia nordcoreana, che il ministero della Difesa russo considera irrilevante, in quanto Kim non annovera la Russia tra i suoi nemici, e comunque facilmente bloccabile con gli strumenti della difesa antiarea russa. Una fonte militare altolocata ha rivelato al quotidiano «Kommersant» che i generali russi «sono più preoccupati dalle conseguenze di un contrattacco degli americani o dei sudcoreani». Un eventuale attacco americano contro la Corea del Nord, ricorda Alexandr Zhebin, direttore del Centro per gli studi coreani dell’Accademia delle scienze russa, «avrebbe conseguenze disastrose per tutta la regione», incluso il rischio di contaminazione radioattiva di parte del territorio russo e cinese: «La Corea del Sud possiede 25 reattori nucleari», ricorda, e se venissero colpiti nel corso di una ritorsione dei nordcoreani «dove dovrebbero scappare 70 milioni di persone?».

Quindi mantenere la dittatura di Kim Jong-un per il Cremlino sarebbe il male minore, soprattutto considerando il rischio che alla caduta del regime di Pyongyang al confine orientale della Russia si instauri un governo democratico alleato degli Usa, dice al «Japan Times» Andrei Lankov, professore all’università Kookmin di Seul e uno dei pochi analisti ad aver visto da vicino la realtà nordcoreana. «Mosca è mossa da calcoli geopolitici di puro cinismo», sostiene Lankov, e proteggerà il regime di Kim se non altro per mantenere questa spina nel fianco degli americani.

Mosca e Pyongyang condividono, anche se ovviamente con intensità diversa, la paura dell’accerchiamento americano. «La Russia crede che Kim non voglia bombardare nessuno, utilizzerà l’atomica solo come un deterrente contro gli Stati Uniti e la Corea del Sud», ha detto alla BBC Alexandr Gabuev, del Moscow Carnegie Center. Putin ha mostrato di comprendere molto bene le ragioni di Kim, ricordando l’esempio di Gheddafi e di Saddam Hussein, che avevano rinunciato ai loro programmi nucleari sotto la pressione occidentale, «e i coreani ricordano bene come sono finiti». Il presidente russo è rimasto scioccato dalla fine del leader libico, e nell’establishment russo la convinzione che gli Usa vogliano far fare la stessa sorte anche agli inquilini del Cremlino è piuttosto radicata. Putin ha più volte espresso pubblicamente la convinzione che solo l’arsenale nucleare mette al riparo la Russia dall’aggressività americana, e quindi pur condannando le ambizioni nucleari di Pyongyang, di fatto le considera fondate.

Come in molti altri scacchieri, la partita coreana per la Russia non è tanto una crisi asiatica, quanto un gioco contro l’eterno nemico americano. Il «Nezavisimoie voennoe obozrenie», un settimanale legato agli ambienti degli analisti militari russi, sostiene che un blitz americano, anche con uso di armi nucleari, contro la Corea del Nord, «potrebbe essere una prova generale dell’operazione analoga contro la Russia», e consiglia di riconoscere a Pyongyang lo status di potenza nucleare «ufficiale» in chiave antiamericana. Mosca ha già protestato diverse volte contro i piani della difesa antimissile americana THAAD che dovrebbe tutelare la Corea del Sud da attacchi missilistici del Nord, proseguendo la sua politica che vede gli «scudi» americani, nell’Est Europa come in Asia, come strumenti per violare l’equilibrio strategico e alla fine togliere alla Russia il suo unico vero vantaggio militare, l’arsenale atomico in grado di colpire gli Usa.

Un attacco americano contro la Corea del Nord permetterebbe al Cremlino di fomentare il sentimento antiamericano dentro il Paese, sostenendo – come aveva già fatto all’epoca delle guerre in Serbia e in Iraq – che Washington vorrebbe attaccare la Russia per imporre un «regime change», e di presentarsi al mondo come un’alternativa politica più responsabile a Donald Trump. Un successo nella mediazione – per esempio, persuadere Kim a sospendere il suo programma nucleare in cambio di aiuti economici e magari della limitazione delle attività militari americane in Asia – porterebbe «a chiunque lo consegua la posizione di agente indipendente più influente del continente», scrive il presidente del Consiglio sulla politica estera e la difesa russo Fyodor Lukianov sul giornale del governo. Ma forse la soluzione che ancora più conviene a Mosca è uno stallo simile a quello attuale: «La Russia sa che il suo piano non funzionerà, ma metterà comunque in cattiva luce gli Stati Uniti», dice Gabuev.

Un valzer diplomatico infruttuoso, interrotto ogni tanto da un’uscita di Kim Jong-un che ribalta il tavolo del negoziato, metterebbe in risalto l’impotenza della comunità internazionale e in particolare degli Usa, diventando una dimostrazione dell’inefficacia delle sanzioni e dell’incapacità diplomatica di Trump. Una situazione che permetterebbe a Putin di condurre la campagna elettorale del 2018 offrendosi ai russi come leader di portata internazionale che li protegge dal caos in cui sta sprofondando l’Occidente.