«Friend-shoring» è il termine del momento. È il neologismo che ha usato la segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen, all’ultimo vertice G20. Riduciamo i confini dell’economia globale alle nazioni amiche e alleate, quelle di cui ci possiamo fidare. L’obiettivo è ambizioso. Ma è possibile? Sta già accadendo? In che misura? Nello stesso summit Yellen aveva guidato un boicottaggio anti-russo. Poiché la Russia fa parte del G20, e poiché la presidenza di turno (Indonesia) non l’ha voluta espellere come chiedevano gli americani, quando il rappresentante di Mosca ha preso la parola Yellen e gli alleati europei hanno staccato il collegamento (il vertice non si svolgeva in persona bensì in videoconferenza). Il simbolico boicottaggio conferma la dissoluzione graduale delle istituzioni che avevano governato la globalizzazione erga omnes, tra cui c’era appunto il G20.
In precedenza la ministra americana del Tesoro aveva parlato della necessità di un «friend-shoring». Il termine viene usato in contrapposizione al più antico e consueto «off-shoring» che designa le delocalizzazioni: investimenti che trasferiscono all’estero fabbriche e altre capacità produttive. Il contrario di «off-shoring» sarebbe «on-shoring» che significa riportare in patria attività in precedenza delocalizzate. «Friend-shoring» indica qualcosa di diverso: riorientare le fabbriche delocalizzate in paesi amici. È un tema forte, di cui si discute da tempo, non solo per effetto della guerra in Ucraina. I paesi amici in questione, se guardiamo per esempio all’arco di nazioni che applicano le sanzioni, includerebbero Stati Uniti e Canada, Unione europea, Svizzera, Giappone, Corea del Sud, Australia e qualcun altro. È già molto. Ma anche le assenze sono vistose.
Gli shock che hanno fatto parlare di una crisi della globalizzazione si susseguono da 14 anni. Nel 2008 la grande crisi finanziaria (poi amplificata in quella dell’Eurozona) fecero crescere la disillusione sui benefici delle frontiere aperte presso ampie fasce di cittadini. Nel 2016 la diffusa sensazione di essere stati traditi dalle élite portò gli elettori britannici e americani a votare per Brexit e Trump. Ne seguirono l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea e la guerra dei dazi contro la Cina. Nel 2020-22 la pandemia mise in luce la pericolosità di catene produttive troppo dilatate, suscettibili di interruzioni improvvise. Ora le sanzioni economiche adottate dall’Occidente contro la Russia rendono ancora più evidenti i costi elevati della dipendenza da fonti energetiche sotto il controllo di potenze ostili e aggressive. Tanto più alla luce delle contro-sanzioni che Vladimir Putin ha adottato tagliando le forniture di gas a Polonia e Bulgaria.
Finora le profezie sulla fine della globalizzazione sono state smentite dai fatti. Il 2021 si è chiuso con l’attivo record nella bilancia commerciale cinese, perché l’Occidente durante la pandemia ha importato più che mai i prodotti made in China. Anziché smontare l’intero edificio della globalizzazione, Yellen indica un obiettivo più circoscritto: ridimensionare la geografia dei paesi con cui abbiamo stretti rapporti economici, selezionando quelli che condividono i nostri valori. Nel lungo periodo questo significherebbe ridurre a zero le relazioni tra l’Occidente e la Russia, ma pure quelle con la Cina. Anche nel mondo arabo o in Africa ci sono molti regimi tirannici e liberticidi. Comunque il solo progetto di ridurre la nostra dipendenza energetica dalla Russia si sta rivelando complicato; ha un senso immaginare il divorzio dalla Cina?
Proprio mentre Yellen parlava di una «globalizzazione fra amici», è accaduto che io dovessi farmi un test Covid, per una cena con una persona che mi aveva chiesto questa precauzione. Le autorità sanitarie americane mi hanno spedito da tempo a casa qui, a New York, dei kit per il test domestico. Aprendo la scatola mi è caduto l’occhio sulla provenienza: made in China. Sono ormai passati più di due anni dall’inizio della pandemia e ancora dipendiamo dalla Cina per i tamponi. Eppure in questi due anni si è parlato molto di riportare in America produzioni sanitarie essenziali.Un problema sono i costi: le delocalizzazioni in Cina avevano una logica economica impellente. Riportare le produzioni in paesi amici significherà pagare tutto più caro, diventerà un ulteriore motore d’inflazione. Un altro problema sono gli investimenti necessari per ricostruire attività scomparse dai nostri territori, e i tempi necessari per creare nuove fabbriche, formare la manodopera. Qualcosa sta accadendo. Nel campo dei semiconduttori, componenti essenziali per tutto ciò che contiene elettronica, Intel e Samsung costruiscono nuove fabbriche negli Stati Uniti per ridurre la dipendenza da Taiwan. Ma ci vorranno almeno due anni perché i nuovi impianti comincino a produrre. Il costo di questi investimenti è di molte decine di miliardi e a renderli possibili è intervenuto il governo Biden, con generosi sussidi che pagheremo noi contribuenti.
Per ridurre la dipendenza dall’energia russa, Draghi è andato a cercare forniture in paesi che stento a definire amici: l’Egitto per esempio. In tema di «friend-shoring», l’Europa aumenterà senz’altro i suoi acquisti di gas naturale dagli Stati Uniti. Ma anche questo è un processo lento perché non bastano i rigassificatori attuali. Gli investimenti per costruirne di nuovi avranno dei costi. La nuova geopolitica della globalizzazione ha un parto faticoso, travagliato, doloroso, e il punto di arrivo è ben lungi dall’essere chiaro. Ci saranno però dei benefici. Almeno in parte, riportare produzioni nei paesi democratici significa ricostruire posti di lavoro che erano stati distrutti.
Nel frattempo la questione tedesca continua a essere centrale per la compattezza della Nato. La Germania è il bersaglio più grosso nel caso di una escalation di contro-sanzioni russe. Una perdita secca di cinque punti del Pil tedesco, per cui la Germania passerebbe da una crescita annua del 3% a una decrescita del meno 2%, sarebbe il risultato di un embargo sulle importazioni di gas russo. Lo dice l’autorevole previsione della Bundesbank, la banca centrale tedesca. L’ardore con cui il governo di Olaf Scholz si era allineato con le sanzioni, la decisione di aumentare gli investimenti per la difesa, il via libera agli aiuti militari all’Ucraina, tutto ciò aveva fatto parlare di una svolta storica. Ora siamo nella fase successiva, in cui cominciano ad affiorare paure, distinguo, perplessità. Soprattutto in seno al partito socialdemocratico, dove la lobby filo-russa era già forte ai tempi dell’Unione Sovietica: il cancelliere Willy Brandt fautore della Ost-Politik fu coinvolto nello scandalo di un collaboratore stretto che era una spia di Mosca.Poi c’è il caso limite dell’altro ex-cancelliere Spd, Gerhard Schroeder, stipendiato dalle società gasifere di Putin. Va aggiunto che la crescita tedesca rallenterà sicuramente, anche senza le sanzioni sul gas. Ma oltre alla guerra in Ucraina, a penalizzarla saranno i lockdown a oltranza che Xi Jinping continua a imporre a diverse città cinesi. La politica «zero-Covid» frena l’economia cinese e la Germania è una grossa esportatrice sul mercato della Repubblica popolare. Per adesso Scholz tiene duro sulla solidarietà atlantica, come ha dimostrato il via libera di Berlino alle forniture di armi pesanti all’Ucraina. Ma la Germania rimane l’anello debole della coalizione, per la sua vulnerabilità: è l’economia più legata al vecchio modello di globalizzazione, quella che faceva affari con tutti senza distinguo politici.