Il presidente ha perso? Ha vinto? Ha pareggiato? Tutt’e tre le cose al tempo stesso. Il verdetto finale sul voto del 6 novembre, in cui si rinnovavano tutta la Camera, un terzo del Senato, e 36 governatori, forse lo conosceremo solo nel 2020. Quando cioè si eleggerà di nuovo il presidente degli Stati Uniti. Da qui a là assisteremo ad una complessa partita a scacchi. La sinistra è meno marginale e impotente oggi, in confronto a prima del 6 novembre. Ma non è detto che sappia usare al meglio il vantaggio che ha conquistato.
L’opposizione democratica conquista la maggioranza alla Camera dei deputati, inaugurando un secondo biennio in cui la presidenza di Donald Trump sarà indebolita e contrastata. È durato solo per i primi due anni di questo presidente il «monocolore» repubblicano, quando la destra ha cumulato il potere esecutivo, i due rami del Congresso, e la Corte suprema. Si apre una fase più conflittuale in cui l’opposizione avrà il potere di bloccare gran parte dell’azione di governo. Il partito del presidente però mantiene e rafforza il controllo del Senato, limitando i danni di questa elezione legislativa di mid-term.
Il verdetto degli elettori è negativo per il presidente, ma quest’ultimo può consolarsi ricordando che prima di lui Barack Obama, George Bush e Bill Clinton subirono sconfitte ben più pesanti alle elezioni di mid-term. Non si è realizzata quella che certi media avevano pronosticato come una «onda blu», una riscossa democratica di ampie proporzioni. Il forte aumento di affluenza alle urne non è stato a senso unico: la figura di Trump ha aiutato la sinistra a motivare i propri elettori e a portarli in massa ai seggi, ma lo stesso effetto di mobilitazione è avvenuto anche nella base di destra. L’elezione si risolve in una sconfitta ai punti, non un k.o. per il presidente. L’aspettativa creata dalle manifestazioni di piazza, o dai pronunciamenti delle celebrity, o dalle condanne corali dei media progressisti, era di un plebiscito anti-Trump che alla fine non c’è stato.
Il secondo biennio inizia in salita per il presidente. La maggioranza democratica alla Camera significa che qualsiasi legislazione di rilievo – in particolare tutte le leggi di bilancio – andrà negoziata e concordata con la sinistra o finirà su un binario morto. Inoltre la Camera eserciterà la sua funzione costituzionale di controllo sul presidente, aprendo inchieste parlamentari sulle sue finanze, le sue tasse, gli scandali e i conflitti d’interessi che pullulano attorno a lui e al suo business familiare. È una situazione inedita per un presidente che nei primi due anni non era stato sfidato né controllato dal Congresso e ora dovrà prendere le misure di un’opposizione in grado di contenerne le iniziative.
Subito il partito democratico aprirà i giochi per designare la sua nuova leadership e si manifesteranno presto le prime candidature per la nomination presidenziale del 2020. Una lezione appresa il 6 novembre è che non bisogna mai sottovalutare la tempra di combattente di Trump. Il presidente si è gettato nella mischia nelle ultime settimane e probabilmente è stato decisivo per contenere i danni in casa repubblicana. La possibilità di una sua rimonta nel 2020 non va scartata. La sinistra dovrà decidere come investire il capitale politico della sua maggioranza alla Camera, che tipo di opposizione fare; per Trump comincia subito la campagna elettorale per la rielezione.
Peserà sugli equilibri interni al partito democratico il fatto che sono stati sconfitti alcuni degli esponenti del rinnovamento, che avevano fatto campagna con posizioni radicali: Beto O’Rourke non è riuscito a impedire la rielezione di Ted Cruz come senatore del Texas; Andrew Gillum non ha conquistato il governo della Florida. Da qui al 2020 andrà aggiornata anche la mappa elettorale. I democratici hanno consolidato il loro dominio sui due Stati costieri della California e di New York espugnandovi alcune «enclave» repubblicane; hanno conquistato alcuni seggi parlamentari in Texas che è una roccaforte repubblicana. La Florida però è rimasta a destra. E il partito repubblicano ha confermato il radicamento nella classe operaia del Midwest estendendolo al Minnesota, uno Stato dove l’immigrazione storica dai paesi scandinavi aveva consentito in altri tempi la nascita di un forte partito socialista.
Trump trasforma una mezza sconfitta in una «grande vittoria», alterna offerte e minacce verso i democratici. Subito regola i conti con il suo segretario alla Giustizia, Jeff Sessions: lo licenzia in tronco perché non si è prestato a controllare o sabotare l’inchiesta sul Russiagate. Trump non si lascia ridimensionare nel ruolo di «anatra zoppa», non accetta che la sua diventi una presidenza dimezzata, vigilata, inquisita. «Le elezioni di mid-term sono sempre state un disastro per i presidenti», dice nella conferenza stampa post-elettorale. Sottolinea con ragione che la disfatta dei repubblicani è stata modesta rispetto a quel che subirono i democratici sotto Obama nel 2010. «Tutto merito della mia popolarità – dice Trump – con cui ho compensato l’enorme afflusso di fondi da parte dei donatori democratici». Trasformando un’elezione legislativa in un referendum su se stesso, Trump ha giocato d’azzardo ma ha ristabilito un equilibrio. I rapporti di forze tra «le due Americhe» restano grosso modo quelli di due anni fa. Il «Muro rosso» delle roccaforti repubblicane ha tenuto.
Trump è talmente a suo agio in campagna elettorale che già comincia la seconda, indicando la sua strategia per il prossimo biennio. «Coi democratici posso trovare accordi, dagli investimenti nelle infrastrutture al controllo sui prezzi dei medicinali». Ecco il piano A verso la rielezione: ricompare il volto di un Trump che avevamo scordato in America, ma che si è visto all’opera con Kim Jong Un. È il businessman pragmatico, che bada al sodo, negozia anche col diavolo se serve a raggiungere risultati. «Con Nancy Pelosi (capogruppo democratica alla Camera) posso lavorare, si faccia avanti con le proposte e avremo un bel rapporto bipartisan». Trump sa di infilare un cuneo dentro le divisioni della sinistra: l’anima centrista e moderata dei democratici non vuole andare al muro contro muro, non vuole regalare alibi al presidente. Il quale è pronto a trasformarsi in un capo dell’opposizione, girando il Paese per due anni a denunciare l’ostruzionismo della sinistra.
Poi scopre il piano B: le minacce. Trump parte all’attacco: «Se giocano il gioco delle inchieste su di me, noi possiamo farlo meglio perché abbiamo in mano il Senato». Quel Senato repubblicano gli avallerà la nomina di un nuovo ministro della Giustizia certamente più docile.
L’anno scorso Matthew Whitaker ri-twittò un articolo così intitolato: «Avviso ai legali di Trump: non cooperate con Mueller e la sua folla assetata di linciaggio». Ora Whitaker è il nuovo ministro della Giustizia ad interim. È il nuovo superiore gerarchico di Robert Mueller, super-inquirente o «special counsel» che indaga sullo scandalo detto Russiagate: la possibile collusione fra Donald Trump e la Russia durante la campagna elettorale del 2016; ed eventuali altri reati come la «ostruzione della giustizia», punibili con l’impeachment.
Non solo ha cacciato Sessions, non solo lo ha sostituito pro tempore con un fedelissimo che non nasconde la sua ostilità a Mueller, ma Trump ha anche esautorato il numero due del Dipartimento di Giustizia, il tecnico Rod Rosenstein: colui che aveva prima scelto e poi protetto Muller. Il ribaltone è totale, a qualcuno ricorda un «golpe» organizzato da Richard Nixon nel ministero di Giustizia, in un estremo tentativo di insabbiare lo scandalo del Watergate che portò alle sue dimissioni (1974).
Il colpo di mano contro Mueller è una conferma che Trump si sente al tempo stesso rafforzato e assediato, dopo i risultati dell’elezione di mid-term. È più forte al Senato dove la maggioranza repubblicana si è allargata. È più forte dentro il partito repubblicano, visto che l’intervento personale di Trump in campagna ha salvato alcuni senatori pericolanti. È al tempo stesso assediato perché l’altro ramo del Congresso ha il potere di varare inchieste sui suoi conflitti d’interessi, le sue tasse. Trump si sta mettendo in assetto di guerra. Il Dipartimento di Giustizia, che nella tradizione americana gode di una certa indipendenza ed è protetto da una serie di filtri, deve diventare il braccio armato del presidente stesso. Whitaker è la persona giusta, quando era chief of staff di quel ministero i colleghi parlavano di lui come una spia della Casa Bianca. In un periodo precedente faceva il commentatore per la Cnn e in una delle sue opinioni disse: «Mueller si sta spingendo troppo avanti nella sua inchiesta. Se si allarga alle finanze della famiglia Trump questa diventa una caccia alle streghe». L’espressione «caccia alle streghe» ricorre sempre, quando il presidente stesso parla di quell’indagine.
Che cosa può fare adesso Whitaker per sabotare l’inchiesta di Mueller? Due le ipotesi più estreme. La prima: licenziare Mueller prima ancora che abbia consegnato il suo rapporto conclusivo sul Russiagate. La seconda: lasciargli finire il rapporto ma decidere di non pubblicarlo. Tutt’e due rientrano nelle facoltà presidenziali anche se si tratta di gravi strappi alla tradizione. Trump non è tipo da preoccuparsi in quanto a strappi alla consuetudine. Come reagirebbe la nuova Camera a maggioranza democratica, che s’insedia a gennaio? Ha poteri di «subpoena» cioè d’interrogare sotto giuramento come un tribunale. Qualora la Casa Bianca insabbi il rapporto Mueller sulla collusione con la Russia, la Camera potrebbe obbligarlo comunque a rendere pubbliche le sue conclusioni.