Una lunga fase di recessione

Gli esperti parlano della fine dell’abbondanza e di una grande incertezza sul futuro a breve, media e lunga scadenza. Intanto cerchiamo di capire i motivi alla base dell’impennata dei prezzi
/ 24.10.2022
di Ignazio Bonoli

Segnali provenienti da praticamente tutti i Paesi del mondo segnalavano – già da parecchi mesi – una chiara tendenza inflazionistica. A metà ottobre i dati nazionali indicavano, per esempio, un 8,2% negli Stati Uniti, un 10% in Germania, un 8,9% in Italia. Interessante l’analisi dei dati disaggregati ad esempio per l’Italia: il rincaro è dovuto nella misura del 15,5% alla spesa per generi alimentari, del 17,10% per i servizi e del 44,5% per l’energia. In Svizzera siamo rimasti al 3,5%, perfino con una piccola diminuzione rispetto al dato precedente. Ma questo è dovuto soprattutto alla forza del franco, che impedisce di importare inflazione, ma nel contempo può danneggiare il turismo e le esportazioni.

A che cosa è dovuta questa improvvisa fiammata dei prezzi? Una gran parte degli economisti che seguono giorno per giorno l’evoluzione dei prezzi sono concordi nell’attribuire a un eccesso di domanda il primo aumento dei prezzi, in seguito sostenuto anche da disturbi nell’offerta. Tradotto in termini più semplici si tratta di un’eccessiva immissione di moneta nel sistema economico, che ha favorito uno sviluppo eccezionale della domanda. Un esempio tipico di questa situazione, anche in Svizzera, può essere visto nell’eccezionale sviluppo immobiliare, iniziato ben prima delle spinte provocate dalla guerra in Ucraina.

A questa situazione già precaria è seguita la guerra, ma soprattutto l’impennata dei prezzi dell’energia. Non solo del gas russo, ma anche di tanti altri fattori energetici, dal petrolio alla corrente elettrica. Qui i prezzi sono saliti a limiti vertiginosi (da sei a dieci volte i prezzi di prima della crisi). Analizzata in termini di teoria economica, siamo qui di fronte a un’inflazione da offerta. Cioè perfino di un’offerta che è venuta a mancare o almeno a ridursi di parecchio rispetto a prima. In economia si sa che l’aumento del prezzo di un bene è dovuto alla sua rarità. Questo spiega l’improvviso forte rincaro dei prezzi sui mercati dell’energia. Probabilmente non tutto il rincaro, poiché vi è sicuramente molta speculazione, ma conta il fatto che sia i venditori sia i compratori prevedono un peggioramento della situazione che durerà probabilmente qualche anno, per cui anche i cosiddetti «futures» (cioè l’acquisto al prezzo di oggi di un bene che riceverò in futuro) registrano prezzi in aumento.

L’attuale diminuzione dei prezzi del petrolio e soprattutto del gas (metà ottobre) serve probabilmente a correggere alcune storture del mercato, dovute in gran parte alla speculazione. La tendenza di fondo non è cambiata. Anzi, si sono visti fornitori che non hanno riversato sul consumatore finale il vantaggio di prezzo ottenuto, grazie proprio ai «futures». Probabilmente il timore che i prezzi possano continuare a crescere ha indotto i fornitori a proteggersi con un immediato adeguamento dei prezzi al consumo. Va anche detto che i prezzi dell’energia hanno un influsso immediato sia sui prezzi alla produzione (aziende molto dipendenti dal fattore energetico), sia sui prezzi al consumo (per esempio i trasporti o prodotti agricoli coltivati in serra). Tutto questo significa che l’attuale inflazione ha basi molto solide e rischia di durare a lungo nel tempo.

Le autorità monetarie mondiali (soprattutto le banche nazionali) sono in gran parte responsabili dell’inflazione da domanda, poiché hanno fornito capitali in abbondanza sia alla produzione, sia al consumo. Questo però con l’obiettivo dichiarato di riportare l’inflazione al massimo al 2%, tasso ritenuto «normale» per un’economia di mercato. L’errore è stato fatto nel lasciar scendere i tassi di interesse al limite massimo sopportabile, per poi rilanciarli, tramite i tassi di sconto, ma in un momento molto critico per l’economia mondiale. Qualche autore, analizzando la situazione, l’ha definita «fine dell’abbondanza», seguita da una grande incertezza sul futuro a breve, media e anche lunga scadenza. Le banche centrali proseguono ora la loro politica di rincaro del costo del denaro, ma così facendo rendono la vita difficile tanto ai produttori, quanto ai consumatori.

In questo contesto si accentuano anche le disparità sociali, perché l’inflazione colpisce in misura più marcata i ceti meno abbienti. Il celebre economista e politico liberale italiano Luigi Einaudi l’aveva definita «la tassa sui poveri». Per evitare danni maggiori gli Stati mettono in atto politiche di sostegno sia per le aziende, sia per la popolazione. Dal canto loro i sindacati chiedono aumenti di salario per compensare la perdita di potere d’acquisto. Questo rischia di vanificare gli sforzi della politica monetaria, il cui obiettivo è quello di ridurre l’eccessiva domanda, tramite l’aumento dei prezzi, ma anche sostenendo un’offerta che si sta sgretolando (fallimenti di aziende). Recenti stime indipendenti valutano che la situazione si protrarrà almeno fino al 2026. Periodo in cui si verificherà anche una recessione (Pil in calo). Se ciò sarà accompagnato anche dalla disoccupazione (aziende che chiudono per i costi dell’energia), si avvierà la classica spirale «prezzi salari» che porterà il sistema in una fase di «stagflazione», con gravi incognite sia sull’entità della crisi, sia sulla durata.