Una guerra più che una sfida

Diario da Pechino – La supremazia strategica dell’intelligenza artificiale è il vero terreno di scontro fra Stati Uniti e Cina, inteso da quest’ultima per dominare il mondo, non per invaderlo dei suoi prodotti – Terza parte
/ 29.07.2019
di Federico Rampini

Ripartono i negoziati commerciali Usa-Cina dopo mesi di stallo, arretramenti, chiusure e minacce reciproche. Una cosa ormai è chiara: la vera posta in gioco non sono gli squilibri import-export, macroscopici ma tutto sommato aggiustabili. La «nuova guerra fredda» è ormai cominciata, e dovrà decretare un vincitore nella gara per la supremazia tecnologica. È una guerra dove le tecnologie per usi civili e militari si mescolano e si confondono, i confini tra il business e la difesa (o lo spionaggio) sono sempre più ambigui. È una guerra che imporrà sempre più spesso dolorose (e costose) scelte di campo agli europei, messi di fronte a degli ultimatum: poco spazio per le ambiguità o le «terze vie», bisognerà schierarsi o con Washington o con Pechino.

La grande differenza rispetto alla prima guerra fredda infatti è questa: l’Urss fu una superpotenza bellica ed anche ideologica (quando il Vangelo comunista era all’apice della sua diffusione mondiale) ma rimase sempre un nano economico, poco integrata e poco influente negli scambi internazionali. La Cina ha un’economia equivalente a quella americana, ed è penetrata profondamente nei tessuti industriali e finanziari di tutti i paesi occidentali, oltre che in Asia, Africa, America latina. Questo configura uno scenario senza precedenti.

Una delegazione dell’Amministrazione Trump è a Shanghai dal 30 luglio per un nuovo «round» di trattative. La guidano il ministro del Tesoro Steven Mnuchin e l’alto rappresentante per i negoziati commerciali, Robert Lighthizer. Sul versante cinese a guidare la delegazione governativa c’è un altro peso massimo, il vicepremier Liu He. Il dato più significativo è l’elenco dei temi che sono sul tavolo, così come viene presentato dalla Casa Bianca. Al primo posto c’è «intellectual property» cioè tutto ciò che riguarda la protezione del know how, segreti industriali, su cui l’America accusa la Cina di furti sistematici. Al secondo posto c’è il tema del «technology transfer»: questo include le contestate normative cinesi che obbligano molte multinazionali occidentali a prendersi un partner locale rivelandogli ogni segreto tecnologico; ma anche la vendita di prodotti tecnologici (semiconduttori, micro-chip e memorie elettroniche) dall’America alla Cina che sono finite sotto embargo. La questione classica degli squilibri commerciali si affaccia solo al terzo posto nell’elenco dei temi.

A dieci anni dal mio ritorno negli Stati Uniti, i rapporti di forze tra le due superpotenze sono cambiati enormemente rispetto al periodo 2004-2009 in cui vissi a Pechino. A quell’epoca era evidente chi fosse il numero uno e il numero due, chi era il maestro e chi l’allievo. Pur essendo tornato regolarmente in Cina, circa una volta ogni anno, non ho avvertito la velocità dell’aggancio o del sorpasso in settori-chiave come le tecnologie avanzate. Ma non sono l’unico. L’America intera, ed in particolare la Silicon Valley, si era distratta al volante e non ha visto il bolide che si avvicinava nello specchietto retrovisore. Ora tenta di correre ai ripari, ma potrebbe essere troppo tardi. Dai responsabili politici di Washington ai top manager dei giganti digitali della West Coast, tutti hanno peccato di «complacency»: un misto di auto-compiacimento e presunzione, convinzione della propria superiorità. 

Uno dei primi a lanciare l’allarme è stato, non a caso, un Chinese-American (cittadino Usa di origini etniche cinesi) che ha una vita divisa tra le due sponde dell’Oceano Pacifico. Kai-Fu Lee è originario di Taiwan – come tale non è sospetto di simpatie politiche verso il regime comunista di Pechino – ed è cresciuto negli Stati Uniti dove ha fatto i suoi studi. Poi la sua carriera manageriale lo ha portato in Cina come capo della filiale locale di Google. Infine si è messo in proprio, fa venture capital, ha una sede a Pechino e finanzia delle start-up cinesi nel settore dell’intelligenza artificiale. A questo settore ha dedicato un libro: A.I. Superpowers: China, Silicon Valley and the New World Order. È un autorevole invito all’America a svegliarsi dal suo torpore. Kai-Fu Lee usa spesso il paragone con «lo shock di Sputnik»: cioè lo sgomento che colpì gli americani nel 1957 quando l’Unione sovietica li precedette nel primo passo verso la conquista dello spazio, mettendo in orbita il satellite Sputnik.

Anche in quel caso la concorrenza tecnologica tra le superpotenze aveva evidenti ricadute militari. Lo shock-Sputnik fu una scossa salutare, John Kennedy vincendo l’elezione presidenziale nel 1960 lanciò la corsa alla luna e tanti altri programmi di ricerca scientifica con finanziamenti pubblici. Anche sul terreno militare l’America non si lasciò mai veramente sorpassare.

Uno shock-Sputnik secondo Kai-Fu Lee lo ha subìto anzitutto la Cina: quando un’intelligenza artificiale made in Usa, il DeepMind AlphaGo di Google, fu capace di sconfiggere il campione mondiale del più antico «gioco strategico» cinese, quel Go che gli esperti considerano molto più complesso dei nostri scacchi. Quell’evento, che passò quasi inosservato in Occidente, sembra aver convinto la dirigenza cinese dell’importanza strategica dell’intelligenza artificiale.

Oggi è l’America che deve subire un altro shock-Sputnik. Kai-Fu Lee avverte che nella tecnologia del futuro i cinesi stanno superando l’Occidente. E non solo a furia di copiare. Certamente il saccheggio sistematico di proprietà intellettuale ha consentito all’inizio di recuperare il ritardo, ma Kai-Fu Lee sottolinea l’importanza di altri fenomeni. La pirateria ha danneggiato anche tante imprese cinesi, vittime di una concorrenza locale spregiudicata. Questo ha generato un ambiente ultra-competitivo, stimolando una cultura imprenditoriale altrettanto diffusa di quella americana e perfino più combattiva.

Alla fine, se molti giganti digitali americani hanno dovuto ritirarsi dal mercato cinese lo si deve a un mix di fattori: dal protezionismo puro e semplice, fino alla sottovalutazione dei talenti locali. Nel caso di social media come Facebook c’è stata una censura; ma per Amazon si può dire che la sconfitta è venuta da concorrenti locali più bravi nel capire i bisogni dei consumatori cinesi. Altri tre fattori pesano nella gara per la supremazia sull’A.I. Vediamoli.

Primo. È di moda la massima secondo cui «nell’èra dell’A.I. i dati sono il nuovo petrolio e la Cina è la nuova Opec». Questo si collega al Deep Learning: le macchine capaci di apprendere da sole sono la nuova generazione di intelligenza artificiale, quella che soppianta noi umani in molti campi di attività. Deep Learning – «apprendimento profondo» – per eccellere ha bisogno di digerire una massa sterminata di dati: Big Data. Un paese con 1,4 miliardi di abitanti ha un bacino di raccolta dati evidentemente superiore.

Secondo. La natura autoritaria del regime può essere un vantaggio in quanto ignora restrizioni alla raccolta dati. Noi occidentali tentiamo – con successi alterni – di proteggere la nostra privacy. I cinesi sono abituati e rassegnati ad essere spiati dal loro governo. In molti casi il Grande Fratello cinese calpesta impunemente i diritti umani: vedi la mappatura biometrica e genetica di milioni di uiguri, i musulmani dello Xinjiang. Ma tutto ciò contribuisce ad alimentare l’A.I. in settori chiave come il riconoscimento facciale, il riconoscimento della voce, ecc.

Terzo. Il sistema politico cinese è un misto di capitalismo e comunismo, con una forte impronta dirigista. Ai tempi di Kennedy anche l’America era dirigista e infatti i finanziamenti pubblici alla scienza e alla ricerca furono decisivi per la conquista dello spazio. L’America di oggi è molto diversa, è passata attraverso la rivoluzione neoliberista di Ronald Reagan, poi abbracciata anche da leader democratici come Bill Clinton e in parte Barack Obama.

Le Amministrazioni Usa si sono convinte che la Silicon Valley è autosufficiente e garantisce da sola la leadership americana nelle tecnologie avanzate. Il laissez-faire americano contrasta con il robusto intervento del governo cinese. Il presidente Xi Jinping teorizza che lo Stato deve sostenere i «campioni nazionali» del digitale: i tre Bat (come «pipistrelli» in inglese), acronimo di Baidu Alibaba Tencent; più alcune eccellenze di nicchia come iFlyTek specializzata nella «voice intelligence». Pechino ormai rappresenta il 60% di tutti gli investimenti mondiali nell’A.I. Una sola municipalità cinese, per esempio la città di Tianjin, stanzia più sussidi pubblici alle aziende dell’intelligenza artificiale, di quanto faccia l’Amministrazione federale di Washington per tutti gli Stati Uniti.

La città di Pechino ha stanziato 2 miliardi di dollari per un parco tecnologico riservato alle start-up dell’A.I. Forte di questo massiccio aiuto statale la Cina ha già sorpassato Stati Uniti, Unione europea e Giappone, per il numero di ricerche scientifiche e brevetti nell’A.I.

Tutto questo ci riporta alla posta in gioco nelle trattative tra i due governi. Un colpo di scena avvenuto nella scorsa primavera va analizzato: fu quando Xi Jinping si rimangiò all’improvviso la promessa di riformare le leggi cinesi sulla proprietà intellettuale. Quel voltafaccia spiazzò Trump che credeva di avere già la vittoria in tasca. Fu in seguito a quel ripensamento cinese che Trump lanciò la minaccia di nuovi dazi, che finirebbero col colpire la quasi totalità dei prodotti made in China. In un certo senso Xi ha gettato la maschera: ha finito per confermare i timori americani, sul fatto che per la Cina quel che conta non è invadere il mondo di prodotti, bensì dominarlo attraverso la supremazia tecnologica.

Trump ha reagito mettendo sotto embargo Huawei, il colosso delle telecom cinesi che è all’avanguardia nella quinta generazione di telefonìa mobile, la porta d’accesso all’ «Internet delle cose». Xi Jinping a sua volta minaccia di privare l’industria americana delle «terre rare», indispensabili per molti prodotti tecnologici. Sono le prime mosse della nuova guerra fredda, il peggio forse deve ancora arrivare.