Una guerra che non conviene a nessuno

Usa-Ucraina - Per evitare il conflitto voci autorevoli cominciano ad immaginare quali concessioni fare al presidente russo Putin
/ 21.02.2022
di Federico Rampini

Dopo la pessima figura fatta in Afghanistan, in Ucraina Joe Biden affronta la sua seconda crisi internazionale: un occasione per rinsaldare credibilità, a condizione di fare le mosse giuste. Nelle prime fasi di questa crisi ha mostrato dei muscoli più virtuali che reali: soft power, strategia delle alleanze, e guerra dell’informazione. Ma dietro le quinte sarebbe già pronto a trattare con Putin. Perché la via del compromesso può essere quella più conveniente per gli Usa. Prima di tutto una precisazione sull’attuale impopolarità di Biden. È a picco nei sondaggi, di sicuro, ma la politica estera non c’entra. La débacle di Kabul fu ingigantita dagli opinionisti ma dimenticata quasi subito dagli elettori americani. Presso l’opinione pubblica pesano tutt’altri problemi: l’inflazione, lo stallo nell’agenda delle riforme, le divisioni paralizzanti in seno al partito democratico, gli eccessi del politically correct nell’ala radicale. Sul fronte estero, gli americani sono stufi di fare i gendarmi mondiali. Biden lo sa, per questo ha sempre escluso di mandare soldati a combattere in Ucraina. Questo è giusto, è razionale, e tuttavia inevitabilmente riduce il suo potere negoziale con Putin. Il leader russo sa che gli americani sono pronti a colpirlo con sanzioni ma non interverranno militarmente in nessun caso, eccetto l’invasione di paesi Nato.

Nell’analisi che viene fatta a Washington, una guerra in Ucraina non conviene a nessuno. Neanche a Putin. Il leader russo preferisce vincere senza combattere. Una guerra vera ha tante incognite anche per lui. Nonostante l’inferiorità militare ucraina, non sarebbe una tranquilla passeggiata fino all’occupazione di Kiev. Potrebbe esserci una resistenza prolungata, con vittime in un popolo fratello che lo stesso Putin descrive come parte della grande famiglia slava. Poi ci sono le conseguenze diplomatiche ed economiche.

Come vedono gli americani il periodico rilancio – retorico – di una difesa comune europea? Sentono parlare di una difesa comune europea dai tempi di Mitterrand-Kohl (anni Ottanta). Oggi la Germania è ancora meno affidabile di allora nel suo atlantismo, tentata dalla finlandizzazione cioè da una neutralità funzionale ai suoi interessi mercantili e ad un progressivo scivolamento geopolitico verso Oriente. Il Regno Unito non è più nell’Unione europea. L’unico che parla di difesa europea avendo un esercito degno di questo nome è Macron. Troppo poco. Con un ex cancelliere tedesco, il socialdemocratico Gerhard Schroeder, che è a libro-paga di Putin ed è il più importante lobbista filo-russo per l’energia, la coesione europea è problematica. Di fronte a Putin l’Europa è stata raramente indecisa come oggi, nonostante le apparenze di compattezza che Biden è riuscito a strappare in sede Nato. L’energia è il tallone d’Achille degli europei, questo messaggio lo hanno mandato Barack Obama, Donald Trump, e ora Biden: «Vi siete privati della vostra autonomia strategica verso Mosca consegnandovi alla dipendenza al gas russo».

Comunque vada a finire la crisi in Ucraina, a guadagnarci potrebbe essere la Cina. Putin è andato a omaggiare Xi Jinping alle Olimpiadi di Pechino e ha firmato un comunicato congiunto che per il 90% riprende le posizioni della diplomazia cinese. Se la Russia finirà sotto nuove sanzioni economiche occidentali, questo la costringerà a «s-dollarizzarsi» ancor più, spostandosi verso quel sistema economico-finanziario alternativo che ha il centro a Pechino. Non è una prospettiva entusiasmante per Putin, diventare il partner minore e più debole in una grande coalizione sino-russa, ma al momento la logica delle cose lo sta spingendo in quella direzione. La Cina ci guadagna materie prime, energia, armi di qualità. Non è un bilancio esaltante, dal punto di vista americano.

Biden ha un piano B per evitare la guerra in Ucraina? Voci autorevoli cominciano a immaginare quali concessioni potrebbero placare Putin e inaugurare un periodo di tregua in Europa. Tra i fautori di un compromesso si segnalano l'ex ambasciatore di Barack Obama in Russia; due tra i maggiori think tank strategici ascoltati dalla Casa Bianca; diverse analisi sulle riviste geopolitiche dell’establishment americano come Foreign Affairs e Foreign Policy.

Michael McFaul, che fu ambasciatore a Mosca per Obama, sostiene che «solo un grande patto con Putin può evitare la guerra». L’ex diplomatico non è ottimista, considera inaccettabili le richieste della Russia: cioè che la Nato chiuda per sempre le sue porte all’Ucraina, e tolga truppe e armi dai paesi che vi hanno aderito dopo il maggio 1997. Si tratterebbe di una ritirata atlantica dall’Europa dell’Est, una restituzione di quei paesi alla sfera d’influenza che fu sovietica. Quelle richieste sono così estreme che possono sembrare «giustificazioni per la guerra, più che basi per un negoziato». Ma la guerra non è un’opzione facile neanche per Putin. Incontrerebbe una resistenza e dovrebbe giustificare massacri di un popolo ucraino che lui stesso descrive come parte della storia russa. McFaul lancia l’idea di un «Helsinki 2», un grande accordo multilaterale che offra garanzie reciproche ai russi e agli europei. Il richiamo storico è interessante perché il primo accordo di Helsinki avvenne negli anni Settanta quando l’Urss sembrava in ascesa e l’America in difficoltà. Quell’accordo, stabilizzando l’Europa, non si rivelò un cattivo affare: alla lunga facilitò l’avanzata delle libertà a Est.

Sulla stessa lunghezza d’onda si esprime Dmitri Trenin, autorevole analista russo che dirige l’ufficio di Mosca del Carnegie Endowment for Peace. Per lui l’obiettivo di Putin non è conquistare l’Ucraina, ma cambiare gli equilibri nell’Europa dell’Est in senso meno sfavorevole agli interessi russi. È essenziale che rimangano fuori dalla Nato per un tempo lungo Ucraina Georgia e Moldavia; e vuole fuori dalla portata i missili intermedi Usa. Con questi risultati Putin potrebbe presentarsi trionfalmente alla rielezione nel 2024.

La Rand Corporation, altro think tank ascoltato dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato, immagina la creazione di un Consiglio di Sicurezza europeo (Stati Uniti, Russia, Francia, Germania, Inghilterra) garante di un «cuscinetto» di Stati non-allineati: le stesse ex-repubbliche sovietiche di cui sopra, più Armenia e Azerbaijan. «Cercare consenso – sostiene Samuel Charap della Rand – non è appeasement o cedimento, è pragmatismo». Durante la prima guerra fredda oltre alla Finlandia anche un altro paese di frontiera, l’Austria, si accomodò in una neutralità fra i blocchi. Non furono soluzioni ideali: Vienna e Helsinki rinunciarono a pezzi di sovranità. A volte ci si accontenta del meno peggio.

Le colombe che suggeriscono a Biden un piano B, non sono destinate per forza a prevalere. A Washington lo schieramento dei pessimisti condanna come un errore la ricerca del compromesso con Putin: secondo i falchi ogni cedimento incoraggerà l’autocrate russo nelle sue pulsioni aggressive, ogni pezzo d’influenza riconquistato da Mosca farà crescere ancora i suoi appetiti.