Le bombe e i missili russi stanno ancora cadendo, e probabilmente continueranno ancora per mesi a distruggere ponti, ferrovie, fabbriche, centrali elettriche, strade e case ucraine. Ma a Kiev, come nelle capitali occidentali, si sta già ragionando su come ricostruire l’Ucraina dopo la fine della guerra. L’Ukraine recovery conference (Urc 2022), convocata oggi e domani a Lugano, si propone di dare l’inizio «a un vasto processo di ricostruzione», come annunciano i governi dell’Ucraina e della Svizzera che hanno lanciato l’iniziativa. Un compito enorme il quale «pone sfide di una portata che per il momento non può venire misurata con precisione». Alla domanda su quanto abbia senso parlare di ricostruzione a guerra ancora in corso, gli organizzatori obiettano che «le dimensioni dell’impegno e la quantità di risorse richieste possono venire anticipate», e quindi devono esserlo, «per essere pronti quando sarà il momento».
Il calcolo è difficile da fare. Le stime sul crollo del Pil ucraino per colpa della guerra variano dal 35 al 45 per cento, e il ministro delle Finanze Serhiy Marchenko ha dichiarato in un’intervista recente a «El Pais» che il deficit accumulato ogni mese dal bilancio di Kiev viaggia sui 5 miliardi di dollari: «Le spese e i danni aumentano di giorno in giorno, e gli aiuti cospicui dell’Occidente non bastano a coprirli». Circa 14 milioni di ucraini sono stati costretti a fuggire dalla guerra e la metà non è in condizioni di guadagnarsi da vivere e quindi di pagare le tasse. A questo bisogna aggiungere le spese enormi per il conflitto: soltanto la retribuzione dell’esercito, della guardia nazionale e della difesa territoriale ammonta a 40 miliardi di grivne al mese (100 grivne sono pari a 3,2 franchi circa), l’equivalente di quello che prima di febbraio veniva speso all’anno, dice Oleksandr Zavitnevich, presidente del Comitato per la sicurezza nazionale e la difesa della Rada, il parlamento di Kiev. A questo vanno aggiunte le spese e i prestiti per gli armamenti, motivo per il quale il governo è stato costretto ad abolire le vacanze fiscali introdotte nei primi mesi di guerra. E mentre nelle zone liberate dai russi intorno a Kiev è già iniziata la ricostruzione delle case e dei ponti distrutti, i responsabili dell’economia ucraina fanno stime astronomiche dei finanziamenti necessari: dai 400 ai 600 miliardi di euro.
In altre parole, l’Ucraina andrà totalmente ricostruita, e non a caso si è deciso di trasformare quella che doveva essere la Quinta conferenza sulle riforme in Ucraina in un evento straordinario sul piano per la ricostruzione promosso dal presidente Volodymyr Zelensky e dal premier Denys Shmyhal a Lugano. È già evidente che per ricostruire quello che è il Paese più esteso dell’Europa ci vorrà uno sforzo che affianchi ai finanziamenti dei governi e istituzioni internazionali anche soggetti privati e programmi umanitari. Ma quando Zelensky, osservando le città del Donbass ridotte in cumuli di rovine, lancia il dibattito sull’opportunità di ricostruire, dopo la guerra, i quartieri residenziali di casermoni di epoca sovietica, propone una rivoluzione non soltanto urbanistica. La ricostruzione potrebbe, paradossalmente, diventare anche un’occasione unica per dare al Paese un assetto al passo con i tempi, una spinta modernizzatrice la cui carenza è un problema di arretratezza comune a tutta l’ex Urss.
Il danno bellico è in effetti soprattutto infrastrutturale: i russi hanno colpito intenzionalmente non soltanto obiettivi militari, ma anche ponti, fabbriche, depositi, silos, raffinerie e ferrovie, e se paradossalmente le strade strette hanno complicato l’avanzata russa, lo scarto delle ferrovie diverso da quello europeo ha rallentato ulteriormente le esportazioni di grano ucraino. Si potrebbe quindi immaginare un’Ucraina post bellica che riemerge in un balzo di modernizzazione tecnologica e infrastrutturale, anche in chiave green, sbarazzandosi nel contempo di molti suoi problemi storici come le faide tra gruppi oligarchici, la lentezza e la corruzione dell’apparato statale. Un sogno che richiede degli investimenti colossali che non potranno che avere un’origine pubblica e privata. Un ammontare che sembra enorme in termini assoluti ma diventa meno spaventoso in termini relativi: il Pil dell’Unione europea e degli Usa è superiore ai 35 mila miliardi di euro, perciò la ricostruzione costerebbe appena l’1% del Pil occidentale. Una spesa che potrebbe rappresentare però una leva maggiore di crescita, coinvolgendo grandi aziende dei Paesi che finanzieranno la ricostruzione. Che a sua volta probabilmente verrebbe coperta dalle garanzie pubbliche internazionali, attraverso le linee di credito del Fondo monetario e della Banca mondiale, dalle obbligazioni dedicate di Stati Uniti e Gran Bretagna, e delle istituzioni statali come nel caso delle obbligazioni emesse in solido dell’Ue. Le imprese private protette dal rischio dell’investimento grazie alle garanzie pubbliche potrebbero poi aprire tutte le linee di credito che riterrebbero necessarie.
Un affare senza precedenti, anche se non si riuscisse a costringere il regime russo a finanziare parte della ricostruzione, un progetto di cui molti Paesi europei stanno esplorando la fattibilità. Non è un caso che a Lugano arrivino delegazioni da tutto il mondo. Zelensky già qualche settimana fa aveva invitato singoli paesi o imprese occidentali ad «adottare» regioni o settori ucraini, e a Kiev sono giunti rappresentanti di governi e associazioni imprenditoriali attratte dalla prospettiva. La regione della capitale pare essere stata appaltata all’alleato principale di Zelensky, il Regno Unito di Boris Johnson, ma sono in corso trattative con Danimarca e Paesi Bassi. Nel Servo del popolo, la serie tv che ha catapultato Zelensky alla presidenza, erano gli oligarchi a giocarsi l’Ucraina in un gigantesco Monopoli. Ma ora che il potere e la ricchezza dei magnati sono stati polverizzati dalla guerra, il piano Marshall che comincerà a prendere forma a Lugano potrebbe diventare la grande occasione di ripresa non solo per l’Ucraina.