La Francia è seriamente malata. Tre onde avverse scuotono una delle più antiche e nobili costruzioni d’Europa e ne incrinano le certezze. La prima riguarda la coesione sociale e culturale, dunque l’identità. La seconda concerne il suo regime, ovvero la legittimità del potere. La terza investe la sua potenza, ossia il rango nel mondo. Le tre crisi rendono triste e precario il lungo tramonto dell’era Macron, battezzata a suon di fanfare nel 2017 e destinata a esaurirsi nel 2027. Forse prima? I francesi sono una Nazione. La Grande Nazione. O lo erano? Il concetto di Nazione è sufficientemente flessibile da consentirne declinazioni e usi i più vari, ma un punto dovrebbe restar fermo: l’appartenenza alla propria comunità, senza di che il termine «Nazione» è privo di senso. Nulla di oggettivo, tantomeno scientifico. Puro sentimento, vero collante di qualsiasi aggregato umano. Nel caso francese imperniato su una religione di sé maturata nei secoli della gloria e sviluppata in missione universale con la Rivoluzione. Libertà, uguaglianza, fraternità: tre parole molto impegnative, il cui senso è molto meno sicuro e comune di quanto fosse fino a pochi anni fa.
Le linee di faglia sono molteplici. C’è quella principale, classica, che divide se non oppone i francesi de souche – di ceppo – dai cittadini di recente affiliazione, per tacere degli immigrati di origine maghrebina. Chi si pensa inscritto in una continuità che da Vercingetorige via Clodoveo e Giovanna d’Arco porta alla Francia moderna difficilmente possiede gli stessi ancoraggi identitari di chi ha raggiunto l’Esagono da una generazione o due. E che viene solo sfiorato dal discorso assimilativo su cui è tuttora basata la pedagogia nazionale. Quando non o rifiuta. Vi è poi – e questo caso non è solo francese – il crescente divario economico e sociale fra benestanti (fra cui una discreta quota di straricchi) e ceti poveri o impoveriti. Sarà la «globalizzazione», sarà l’impossibilità di garantire lo Stato sociale a tutti – diritto cui però nessuno dei non-ricchi intende abdicare – fatto è che questa frattura è sempre meno tollerabile. In un Paese che non rinuncia alla violenza nell’esprimere o nel reprimere le idee e le rivendicazioni irrinunciabili, questo si evidenzia nelle émeutes (moti) – come si classificano le rivolte di piazza che scuotono anche i quartieri benestanti, non solo le periferie. Un’ispezione nel sistema sanitario o perfino in quello scolastico rende immediatamente palese il ben fondato disagio di tanti francesi.
Tutto ciò contribuisce a mettere in questione la legittimità delle istituzioni repubblicane. Per un Paese dove il culto dello Stato è centrale, questo senso potenzialmente eversivo è pericolo mortale. La Quinta Repubblica – sorta di monarchia repubblicana con un presidente-re, inventata dal generale de Gaulle a misura delle proprie smisurate ambizioni – si svela inadeguata ai fermenti attuali. Un presidente-re intelligente e capace ma inguaribilmente arrogante viene percepito da una crescente quota della Nazione come un contromodello più che come un esempio. Neanche Macron fosse un estraneo. Il suo silenzio durante l’ultima parata del 14 luglio, quando gli è stato consigliato di rinunciare al discorso ufficiale per non essere fischiato, è illustrativo di tanta distonia caratteriale e istituzionale. Né appare all’orizzonte un movimento o una figura sufficientemente coesiva da poter ricostruire il collante che cementa Stato e cittadino.
Infine, la Francia deve ancora elaborare il trauma del 1940: l’invasione tedesca assai poco contrastata che suonò allarme per tutti coloro che s’illudevano di poter continuare a essere nel Novecento, e oltre, quel che furono per secoli: cittadini di una grande potenza. Se non della grande potenza. Ispiratrice come nessun’altra stella del firmamento geopolitico – America esclusa e perciò non amata – di una missione civilizzatrice per il bene dell’umanità. La vocazione universalista è il pendant della Grande Nazione. La colonizzazione dell’Ottocento era legittimata e illustrata dalla convinzione – o dalla pretesa – di portare i lumi a popoli vissuti nell’oscurità, ai margini della storia e del progresso. La perdita traumatica dell’impero, specie di quello africano, ha messo in crisi questa paradigma. I suoi effetti riverberano tuttora. Ultimo caso quello del Niger, roccaforte del post-impero neocoloniale dove i golpisti anti-francesi sono salutati in piazza – e in molte altre piazze africane – al grido di «abbasso la Francia» (talvolta accompagnato da un «viva la Russia!»).
Troppe crisi convergono su Parigi. Sarà bene prenderne nota. Il malessere francese può diventare europeo e occidentale. Già lo è, in parte. In tempo di guerra e di collasso delle certezze coltivate per almeno tre generazioni i segnali che arrivano dall’Esagono vanno ascoltati. La Francia resta un grande Paese, con le risorse necessarie a risollevarsi. Ma niente è garantito, specie per chi volesse far finta di nulla.