Una crepa nel muro del celibato

Sinodo per l’Amazzonia – Durante la penultima giornata della riunione mondiale dei vescovi è stata approvata una proposta per permettere il sacerdozio agli uomini sposati nelle zone isolate e sperdute
/ 04.11.2019
di Giorgio Bernardelli

La possibilità dell’ordinazione sacerdotale per uomini sposati. Insieme all’idea di riconoscere espressamente un ruolo di coordinatrice di comunità per le donne nella chiesa. Senza escludere la possibilità di una Messa su misura per gli indios, con gesti e parole che raccontino la teologia cattolica utilizzando le categorie e i miti delle popolazioni locali. Hanno davvero il sapore di una rivoluzione per la Chiesa di Roma alcune delle idee contenute nel Documento finale del Sinodo dei vescovi conclusosi nei giorni scorsi in Vaticano.

Era un appuntamento molto atteso quest’assemblea sull’Amazzonia. Annunciata a sorpresa da Papa Francesco due anni fa, il suo cammino di preparazione era iniziato nel gennaio 2018 da Puerto Maldonado, nella regione peruviana della grande foresta; quella dove il verde degli alberi ha da tempo lasciato il posto alla terra rossa dei cercatori d’oro e dalle miniere illegali. Già lì Bergoglio aveva voluto incontrare i rappresentanti dei 390 popoli indigeni dell’Amazzonia denunciando di fronte al mondo come il loro futuro non sia mai stato tanto minacciato quanto lo è oggi.

E da allora – nei nove diversi Paesi latino-americani attraversati dalla foresta – era partita una fase di ascolto, con assemblee organizzate dalle chiese locali persino nelle zone più remote. Incontri scanditi dal ritornello sulle colpe di un sistema economico che guarda all’ultimo grande polmone verde del mondo come a un mero serbatoio di materie prime dal quale attingere senza fine, senza alcuna forma di tutela per le popolazioni  dell’Amazzonia. Idee indigeste per il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, che in questi mesi non ha mancato di ripetere che la gestione della foresta sarebbe rimasta «una questione interna».

A Roma ci si attendeva, dunque, uno scontro principalmente sulla questione ecologica. Ed effettivamente i rappresenti dei popoli indigeni giunti in Vaticano insieme a i 185 tra vescovi ed esperti invitati dal Papa a prendere parte al Sinodo non hanno mancato di denunciare le distruzioni messe in atto da società che spesso e volentieri arrivano anche a uccidere chi difende la terra e i diritti delle popolazioni locali. Eppure la «conversione verde» e la denuncia dei «peccati ecologici» sono stati in fondo la parte meno tormentata di questo Sinodo. Perché chi specula sull’Amazzonia preferisce derubricare questo tipo di denunce a un temporale che passa in fretta, come in fondo è successo quest’estate con la piaga degli incendi. Spenti i riflettori torna sempre molto in fretta quella quiete che è l’habitat migliore per l’inerzia delle leggi di un mercato globale assetato di risorse a basso prezzo che continua inesorabilmente a premere in favore di una sfruttamento senza soste.

Sarebbe dunque scivolato probabilmente via dietro a qualche tocco di colore questo Sinodo se non fosse che papa Francesco sull’Amazzonia aveva in mente anche molto altro. Perché dietro alla questione ecologica oggi anche per la Chiesa cattolica c’è un vero e proprio cambio di paradigma. Ama dire che dalle periferie il mondo si vede meglio, papa Bergoglio. E non stupisce che proprio il Sinodo della «scelta preferenziale per le popolazioni indigene» abbia dato una picconata ad alcune delle regole più rigide del cattolicesimo romano.

La crepa nella questione del celibato del clero, ad esempio, è maturata a partire dalla constatazione di una contraddizione evidente: la fede cattolica che i missionari annunciano agli indios dell’Amazzonia dice anche lì, come ovunque, che partecipare alla Messa domenicale è il gesto più importante nella vita di un cristiano. Solo che quando nella foresta i preti sono appena una manciata mentre i villaggi sono tanti e distano tra loro ore di barca o di canoa come si fa? Oggi questi cristiani di fatto possono partecipare all’Eucaristia appena una o due volte all’anno. E allora – ci si è chiesto – non varrebbe la pena di tornare all’origine delle comunità cristiane, quando a presiedere il rito era molto semplicemente l’anziano (in greco presbitero) della comunità, il quale il più delle volte aveva moglie e figli? Tanto più che nella stessa Chiesa cattolica esistono riti orientali dove è già così: i sacerdoti di queste comunità sono sposati come quelli delle Chiese ortodosse.

Questo tema dei cosiddetti «viri probati» è pero solo un aspetto. Essendo pochi i preti in Amazzonia, ad esempio, capita spesso che le comunità siano affidate anche a suore o laiche che diventano il punto di riferimento per la comunità. Alla domenica, quando il prete non c’è, sono queste donne a riunire i fedeli e perlomeno a leggere e commentare il brano di Vangelo del giorno. Al Sinodo una di loro ha raccontato di essersi trovata davanti a una persona che stava morendo e voleva confessare i suoi peccati. «Che cosa potevo fare – ha commentato – se non ascoltarla e affidarla alla misericordia di Dio?». La riapertura della riflessione sulla possibilità di conferire il diaconato alle donne, alla fine, è nata dalla constatazione di ciò che in Amazzonia esiste già. E per una ragione che non è solo contingente, ma ha a che fare anche con un modo di pensare il proprio essere Chiesa maturato in contesti  di machismo imperante.

In fondo è proprio questo lo stile di papa Francesco: farsi scudo con chi è debole e apparentemente insignificante per scardinare tradizioni che sembravano immutabili. Del resto gli stessi numeri parlano chiaro: cattolico è sempre meno sinonimo di occidentale; il volto latino-americano di questo Pontificato è un chiaro segno dei tempi. Pur con tutte le sue contraddizioni: la Chiesa cattolica in Brasile oggi non è più quella degli anni della teologia della liberazione. Si trova a fare i conti con la concorrenza sempre più aggressiva di quei movimenti pentecostali che si ispirano alla teologia della prosperità, cioè all’idea che la ricchezza sia una benedizione divina. Scegliendo i popoli dell’Amazzonia e portandoli in San Pietro, nel cuore della cristianità, la Chiesa di Francesco fa dunque controcultura. Dice che ripartire dai poveri e dai dimenticati del mondo non è uno slogan assistenzialista ma una disponibilità a cambiare prima di tutto il proprio modo di essere.

Si è respirato di nuovo il vento del Concilio Vaticano II a Roma durante il Sinodo per l’Amazzonia. Un’apertura nei confronti dell’altro capace di andare anche oltre le stesse barriere religiose, per chiedersi se persino in quella spiritualità che i popoli dell’Amazzonia hanno custodito nelle loro foreste non può esserci uno sguardo inedito sul mistero di Dio prezioso anche per la Chiesa cattolica. Alla fine è proprio questo ciò che ha scandalizzato di più il mondo tradizionalista: non tanto l’idea che ci sia una foresta da preservare, ma che la Pachamama – la Madre Terra delle popolazioni andine – per un cristiano possa essere un «seme del Verbo», un’immagine che rivela un volto del rapporto tra Dio e il creato.

Ha aperto un cantiere papa Francesco con il Sinodo per l’Amazzonia; in qualche modo ha rotto gli indugi imprimendo un’accelerazione al cammino della Chiesa cattolica. Se – come appare probabile – confermerà nel suo documento di sintesi le novità emerse dal Sinodo, comincerà dai villaggi della foresta un nuovo modo di essere Chiesa. Meno ingessato dentro regole figlie di un certo contesto storico e geografico, e più aperto invece all’idea che con la società anche una comunità cristiana può cambiare. E questo non per piegarsi alle mode del momento, ma per rendere davvero vicino il Vangelo di Gesù alle donne e agli uomini del proprio tempo.

Si tratta di una sfida a viso aperto a chi ha trasformato il cattolicesimo in una difesa a oltranza di un mondo che non esiste più. C’è chi lo accusa senza troppe diplomazie di eresia e punta tutto sul prossimo conclave. Lui da parte sua ridisegna il collegio cardinalizio. Consapevole che la partita andrà avanti anche dopo Bergoglio.