Non vivessimo i tempi in cui viviamo, Donald Trump non avrebbe alcuna chance di essere rieletto presidente degli Stati Uniti. Probabilmente non avrebbe nemmeno la possibilità di ricandidarsi, come aveva predetto due anni fa il suo ex stratega Steve Bannon, oggi guru dell’internazionale populista. Invece il presidente americano è ben saldo alla Casa Bianca e dichiara pubblicamente che le inchieste nei suoi confronti lo hanno infine liberato dal peso di doversi difendere dall’ingiusta accusa di essere stato in combutta con i russi per corrompere il processo democratico americano del 2016 a danno di Hillary Clinton. Eppure ora sappiamo che, al momento della nomina di Robert Mueller a procuratore del Russiagate, è stato proprio Trump a dire, con parole non smentite, che l’apertura dell’inchiesta era una notizia terribile e letale, in pratica la fine della sua presidenza.
Il rigoroso senso dello Stato di Mueller, e una certa ingenuità nel non prevedere che Trump avrebbe abilmente manipolato le conclusioni del rapporto, hanno comunque assegnato una notevole vittoria mediatica al presidente, il quale non solo si potrà ricandidare ma affronterà i mesi che lo separano dal voto del novembre 2020 assistendo alla battaglia tra ventuno, almeno per ora, impacciati candidati democratici ancora indecisi sul da farsi. Solo Joe Biden, l’ex vicepresidente di Barack Obama e l’ultimo dei democratici a scendere in campo, per esperienza e autorevolezza sembra in grado di sostenere lo scontro con Trump. Gli altri tendenzialmente lo ignorano, anche dopo che è naufragata la speranza che fosse Mueller, e non loro, a liberare il Paese da Trump.
Nonostante la narrazione di Trump sia quella dell’assoluzione sotto ogni punto di vista, il rapporto Mueller dice altro. Mueller non ha incriminato il presidente perché le linee guida del Dipartimento di Giustizia, sostenute con gran vigore dall’attuale Attorney General William Barr, nominato da Trump esattamente per questo motivo, sostengono che un presidente in carica non possa essere processato. Mueller ha smontato il ragionamento legale del Dipartimento, ma vi si è lealmente attenuto, non pronunciandosi sulle ipotesi di reato del presidente, pur raccogliendo una quantità imponente di prove che dimostrano i tentativi ripetuti di Trump di fermare il corso dell’inchiesta, in molti casi evitati grazie al rifiuto dei funzionari dell’Amministrazione.
Mueller, però, non solo ha lasciato aperta la possibilità che Trump possa andare sotto inchiesta una volta lasciata la Casa Bianca, da privato cittadino, ma ha affidato al Congresso, l’organo politico preposto a mettere in stato d’accusa e poi a giudicare il presidente, il compito di preservare il corretto funzionamento delle attività formali dello Stato americano di fronte ad atti come quelli dimostrati nell’inchiesta. Insomma, i fatti sono evidenti e la palla ora è nel campo della politica.
Il giorno dopo la pubblicazione parziale del rapporto, la senatrice e candidata presidenziale, Elizabeth Warren, molto indietro nei sondaggi malgrado sia una delle più preparate e l’unica ad aver presentato una serie di proposte concrete, ha provato a distinguersi dal gruppo chiedendo pubblicamente l’apertura della procedura di impeachment nei confronti del presidente. Soltanto la collega senatrice Kamala Harris, anche lei candidata, ha aderito sia pure con moderazione all’idea. Ma a colpire è stato il silenzio, se non la contrarietà, dei vertici democratici al Congresso, a cominciare dalla Speaker Nancy Pelosi. Secondo la Costituzione americana, l’incriminazione del presidente è compito della Camera dei deputati, ora guidata dalla Pelosi.
In teoria i numeri ci sarebbero, così come i possibili capi di imputazione, ma l’abilità di Trump nel far passare la sua narrazione, «no collusion, no obstruction», hanno trasformato la questione in una battaglia partigiana tra trumpiani e antitrumpiani, non sui comportamenti del Commander in Chief né sul merito dei fatti contestati che, uno per uno, sono di gran lunga più seri e gravi di quelli presi in considerazione negli unici tre precedenti di impeachment nella storia degli Stati Uniti. Nessun presidente americano è mai stato formalmente rimosso dal Congresso, perché in due casi, Andrew Johnson (1868) e Bill Clinton (1998), la Camera li ha messi sotto accusa e il Senato, che nella procedura costituzionale fa da giudice, li ha assolti (nel caso di Johnson, per l’unico voto di un senatore).
Nel 1973, invece, Richard Nixon si è dimesso da presidente, in cambio della grazia, prima ancora che iniziasse il procedimento e per evitare l’onta dell’impeachment. Gerald Ford, il successore di Nixon, in quell’occasione disse che ciò che determina l’incriminazione del presidente è «qualsiasi cosa una maggioranza della Camera considera tale in quel determinato momento della storia». Nel 1868, Jackson fu incriminato per aver oltraggiato, disonorato e ridicolizzato la presidenza, non per aver commesso un reato. Nel caso di Clinton, alla maggioranza repubblicana era stato sufficiente che avesse mentito alla giuria sui rapporti sessuali intercorsi con una stagista, mentre a Nixon il Congresso contestava di aver osteggiato un’inchiesta federale, abusato dei suoi poteri e ignorato le richieste di deposizione sotto giuramento, tutti comportamenti che, secondo Mueller, ha tenuto anche Trump. Il Russiagate è ancora più grave perché provare a fermare un’inchiesta sull’ingerenza esterna nel processo democratico e accettare l’aiuto di una potenza straniera sono i comportamenti più incriminabili possibili per un presidente.
Mueller ha esonerato Trump soltanto dall’accusa di essersi coordinato con il governo russo e le sue attività di interferenza elettorale in America, nonostante entrambi lavorassero allo stesso obiettivo e fossero anche disponibili ad aiutarsi a vicenda.
L’elenco degli aiutini russi a Trump, e delle manovre trumpiane per sfruttarli, in tempi normali avrebbe creato una solida maggioranza bipartisan e patriottica contro il presidente alleato di Mosca, invece – tranne un paio di eccezioni – i repubblicani stanno tutti con Trump e, avendo la maggioranza al Senato, è improbabile che la procedura di impeachment possa portare a una condanna del presidente.
I democratici lo sanno e prendono tempo: da un lato sperano che le inchieste ordinarie dei magistrati di New York sugli affari di Trump possano aprire altri fronti, dall’altra proveranno la strada delle audizioni al Congresso per portare tutto alla luce del sole. Il timore di Nancy Pelosi e degli altri è che i tentativi di rimuovere Trump possano aiutare il presidente a costruirsi l’immagine di vittima di oscure manovre di palazzo e, allo stesso tempo, a mettere in difficoltà i democratici nei collegi dove la differenza tra i due partiti è minima. Ma far finta di niente di fronte a un presidente che ha flirtato con l’attacco straniero alla democrazia americana ha altrettante controindicazioni politiche: l’elettorato democratico potrebbe giudicare inetti e inadeguati gli attuali candidati di partito e, cosa ben più pericolosa per il futuro dell’America, farebbe credere ai prossimi leader che basta saper manipolare l’opinione pubblica per essere considerati al di sopra della legge e farla franca.