Un voto su Renzi?

Referendum – La riforma costituzionale promossa dal governo italiano prevede fra l’altro la modifica del Senato e la fine del bicameralismo
/ 28.11.2016
di Alfredo Venturi

«Contro di me un’accozzaglia», dice Matteo Renzi, e la frase rivela una condizione inedita per il presidente del consiglio: l’uomo abituato ad affrontare gli ostacoli con un plateale trionfalismo stavolta è costretto sulla difensiva. Proprio mentre celebra i primi mille giorni del suo governo vede avvicinarsi con qualche affanno la scadenza del 4 dicembre. Quel giorno gli italiani saranno chiamati a votare sulla riforma costituzionale che un’insufficiente maggioranza non ha potuto varare in parlamento: un insieme di modifiche alla Carta che vanno dalla sostituzione del Senato con un’assemblea più ridotta nominata dai consigli regionali all’accentramento di alcune competenze oggi affidate alle regioni, fino all’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, organo consultivo del governo.

Gli obiettivi: assicurare governabilità accelerando le procedure decisionali, ridurre i costi della politica. La controparte ribatte che queste modifiche sottrarrebbero sovranità al popolo dando troppo potere a chi governa, soprattutto se non si cambia la legge elettorale. Renzi promette: ma certo, faremo la nuova legge, intanto date via libera alla riforma.

Ma l’«accozzaglia» di cui parla il presidente (che dopo il vespaio suscitato da questa definizione si è affrettato a scusarsene) non ci sta e insiste sulle sue ragioni, mentre nei talkshow si azzuffano politici e giuristi e i giornali si divertono a individuare i sì e i no fra la gente della cultura e dello spettacolo. Contrasta il disegno di Renzi una moltitudine dalle assortite provenienze politiche. Si va dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, pronto a intestarsi l’eventuale vittoria del no, alla Lega di Matteo Salvini, da ciò che resta di Forza Italia alla minoranza anti-renziana del Partito democratico, dalla destra neofascista fino a vari gruppi di sinistra. Le formazioni politiche sono tutt’altro che compatte. Non è diviso soltanto il Pd, ci sono berlusconiani sordi all’invito del loro capo, che li esorta a votare contro, e persino leghisti, come il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, che scelgono il sì.

In realtà le motivazioni non si concentrano esclusivamente sul merito della riforma. Qualche mese fa Renzi legò le sue sorti politiche all’esito del referendum: se vince il no me ne vado. Forse sopravvalutava la portata della minaccia: fatto sta che cominciò a farsi strada, puntualmente fotografata dai sondaggi, la propensione a votare no proprio per sbarazzarsi di Renzi. Sensibile agli umori popolari, si accorge dell’errore e corregge il tiro: ho sbagliato a personalizzare il referendum. Ma poi si getta a capofitto nella campagna elettorale, ignorando il possibile effetto saturazione che potrebbe rendere controproducente la sua massiccia presenza sulle reti televisive, e colloca di nuovo la sua persona, il suo destino politico, al centro della contesa.

Inoltre attribuisce alla scelta referendaria un valore palingenetico. Si vota, proclama, per il domani dell’Italia, senza riforme il nostro Paese è privo di futuro, i mercati finanziari sono in fibrillazione, un successo del no farebbe schizzare verso l’alto il famigerato spread, il differenziale fra i rendimenti dei titoli pubblici italiani e tedeschi. Cioè il termometro della febbre finanziaria che affligge l’Italia, prostrata da una congiuntura che sta uscendo troppo lentamente dalla crisi e da un debito mostruoso.

Anche oltre frontiera si prospettano scenari inquietanti, il «Financial Times» arriva a prevedere, in caso di vittoria del no, l’avvio di un processo che porterebbe all’uscita dell’Italia dall’euro. Chi avversa la riforma contesta tutto questo e fa notare che i mercati, come è accaduto per due eventi ai quali erano state collegate prospettive altrettanto apocalittiche, la Brexit e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, finiscono sempre con l’adattarsi al fatto compiuto. A pochi giorni dal voto i sondaggi rivelano che prevale il no, ma vanno presi con le molle, anche perché c’è una massa di incerti che alla fine potrebbero rivelarsi decisivi.

Per conquistarli, le due parti non lesinano gli sforzi. Renzi spedisce ai cittadini residenti fuori dai confini una lettera con cui li invita a votare sì. La mossa è controversa, si parla d’indebita ingerenza, per di più è dubbia la regolarità del voto all’estero, al punto che si minaccia un ricorso nel caso risultasse decisivo. Sono più di tre milioni di elettori potenziali, se riuscisse a mobilitarli potrebbero effettivamente garantirgli il successo. Li invita anche a collegarsi a un sito di informazioni sulla riforma, ma qui incappa in un bizzarro infortunio, notato quando le lettere ormai sono partite. C’è un refuso nell’URL del sito, un bastaunsi ridotto a bastausi, un comitato di fautori del no se ne impadronisce reindirizzando il collegamento alle proprie pagine. L’esortazione del presidente è così accompagnata da tutte le ragioni possibili e immaginabili per non dargli retta.

Il risultato del referendum dipenderà in larga misura dall’affluenza al voto: vincerò, dice Renzi, se voterà almeno il sessanta per cento degli elettori. Intanto cerca di assecondarne le tendenze. Per esempio attacca l’Unione Europea, la cui popolarità è in declino nonostante la recente attenzione alle necessità del Paese colpito da un devastante terremoto e da una inarrestabile marea di profughi. Fa rimuovere la bandiera europea dietro la sua scrivania, salvo poi pentirsene e dichiarare che la bandiera resta, ma «l’Europa deve cambiare». Intanto emerge quello che qualcuno chiama «patriottismo costituzionale», una sorta di senso d’identità che induce a rifiutare ogni ritocco alla «Costituzione più bella del mondo», come la definì a suo tempo, illustrandone il testo, l’attore e regista Roberto Benigni. Ma oggi Benigni è schierato con il sì, a chi gli fa notare la contraddizione risponde che la Carta più bella del mondo è tale anche perché è emendabile.

La campagna elettorale si avvia alla conclusione in un crescendo di toni fortemente emotivi. Secondo Grillo il fronte del sì è un serial killer, perché «uccide il futuro dei nostri figli». Renzi lo invita a occuparsi piuttosto di un caso di firme false esploso in Sicilia a carico dei 5 Stelle. Di fatto, il referendum è pieno di contenuti estranei al suo oggetto. All’interno del Pd l’ex primo ministro Massimo D’Alema e l’ex segretario Pier Luigi Bersani si dichiarano per il no, portando al calor bianco le tensioni nel partito. Silvio Berlusconi sembra incerto fra una futura intesa con un Renzi indebolito dalla possibile sconfitta e una stretta alleanza con il leghista Matteo Salvini. Quest’ultimo, galvanizzato dall’esito del voto americano, contende a Grillo l’etichetta di «Trump italiano» e si dice pronto a candidarsi per il centro-destra alla presidenza del consiglio. Come no, se Trump va alla Casa Bianca, perché non Salvini a Palazzo Chigi?

 La scorsa primavera il capo della Lega ebbe un singolare incontro con il magnate newyorchese. I due furono fotografati a Wikes-Barre, Pennsylvania, mentre sorridendo si stringevano la mano. Più tardi Trump negò di avere avuto un colloquio con il politico italiano: una foto come tante, spiegò. Situazione simile un anno fa, quando Salvini andò a Mosca preannunciando un incontro con Vladimir Putin, altro suo modello di riferimento, ma dovette accontentarsi di interlocutori di rango più modesto. Ora punta a superare le frustrazioni internazionali traendo il massimo profitto dall’auspicata vittoria referendaria, incurante di tutti coloro che pur votando esattamente come lui lo faranno, per dirla con Montanelli, «turandosi il naso».