Un triangolo vincente

Siria – L’entrata in campo della Russia si è dimostrata determinante: con la Turchia e l’Iran ha formato un’alleanza efficace per la sopravvivenza del regime di al-Assad
/ 23.04.2018
di Lucio Caracciolo

Bashar al-Assad sarà a capo di quel che resta della Siria per il tempo prevedibile. I ribelli di varie fazioni o orientamenti che lo hanno appoggiato, insieme ai loro sostenitori esterni, hanno perso. La guerra siriana continuerà ancora a lungo, aggiungendo morti ai morti, feriti ai feriti, profughi ai profughi, ma l’esito strategico è evidente. E contrario alle previsioni di molti, soprattutto di coloro che avevano attaccato il regime pensando di rovesciarlo in un paio di mesi: il presidente turco Erdoğan, la famiglia regnante saudita, gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra.

Durante i sette anni di una guerra che minaccia di durarne ancora parecchi – perché gli attori coinvolti sono troppi e nessuno è in grado di controllare tutto il territorio, anche se nessuno pare dotato della volontà e della capacità di prendere Damasco e la «Siria utile» in mano al clan Assad – vi sono stati rovesciamenti di fronte e scontri fra ex alleati. In particolare, molte formazioni ribelli si sono sparate addosso, specie quelle di ideologia e derivazione qaidista, come Jabhat al Nusra e lo Stato Islamico, ormai ridotto a detenere uno spicchio di territorio a ridosso della teorica frontiera con l’Iraq. Ma più di tutto, nel determinare la situazione attuale, ha pesato l’esitazione degli americani, che non hanno spinto fino alle estreme conseguenze il loro sostegno alla molto eterogenea coalizione anti-Assad. Quando poi il presidente Obama, contrariamente alle promesse, non ha rispettato le «linee rosse» da lui stesso fissate, lasciando che un massacro compiuto dal – o almeno attribuito al – regime di Damasco grazie all’impiego massiccio di armi chimiche restasse impunito, si è capito che l’inerzia della guerra volgeva a favore degli al-Assad.

Lo stesso Trump, che ha fatto della pretesa differenza fra lui e Obama il marchio della sua presidenza, per ben due volte di fronte a casi simili di sospetto impiego di armi chimiche da parte dei governativi ha deciso che si rispondesse da parte americana, con il blando supporto francese e britannico, attraverso una rappresaglia simbolica, inefficace. A quel punto la sconfitta della coalizione anti-Damasco è parsa a tutti irreversibile.

Il discrimine strategico è stata l’entrata in campo della Russia, che ha ormai formato con l’Iran e con la Turchia – interessata soprattutto a impedire la saldatura fra curdi siriani e Pkk, ovvero quelli che considera terroristi curdi operanti sul proprio territorio – un triangolo scaleno vincente. Forse fragile, probabilmente destinato a evaporare con la vittoria definitiva, ma finora assai efficace.

Che cosa perseguono russi, iraniani e turchi oggi in Siria?

La scelta di Putin di intervenire in Siria è stata frutto della sconfitta subita in Ucraina, nel 2014. La perdita di Kiev e della «Nuova Russia», l’arroccamento nei territori ucraini orientali a maggioranza russofona appena compensato dal ratto della Crimea, è stato uno schiaffo che ha messo in discussione il prestigio e la credibilità del presidente russo. Particolarmente insolente, per Putin, è stata la sentenza di Obama per cui la Russia non era altro che una «potenza regionale», attiva nell’area ex sovietica. Punto. Per dimostrare il contrario, Putin ha deciso l’intervento al fianco del vecchio sodale al-Assad. Facendo leva sugli antichi vincoli di epoca sovietica fra quel regime e il Cremlino, sulla base russa installata lungo la costa mediterranea della Siria (oggi ne ve sono almeno tre) e sulla indubbia efficacia delle sue Forze armate, soprattutto dell’Aviazione e dei missili a lunga gittata.

Senza il sostegno russo, Damasco non avrebbe mai ripreso Aleppo, città strategica nel nord del Paese. Quella è stata la svolta militare decisiva, che ha segnato un tornante strategico. La Russia non resterà a lungo in Siria, ma certamente non lascerà le sue basi e preserverà la sua influenza nel Paese, usandolo come base di relativa penetrazione nel Mediterraneo e in Nord Africa.

Quanto a Teheran, la perdita della Siria a favore del suo rivale regionale, l’Arabia Saudita, e delle forze che la rappresentano in quel Paese, sarebbe stata fatale. Dopo la liquidazione di Saddam per mano americana, l’Iran si è trovato a disporre di un asse Beirut-Damasco-Teheran-Herat, tra il Libano e l’Afghanistan occidentale, di fondamentale rilievo. Gli ayatollah lo chiamano «asse della resistenza», dove quest’ultima è riferita a Israele, all’Arabia Saudita e ai loro protettori americani. I suoi nemici lo chiamano «crescente persiano-sciita», ovvero la nemesi della propria matrice arabo-sunnita, ai quali va aggiunto lo Stato ebraico e la massima potenza cristiana, sia pure sui generis.

Infine la Turchia. Partita per recuperare un pezzo dell’impero ottomano di indimenticata memoria, contro una famiglia come quella degli al-Assad con cui Erdoğan aveva avuto notevole intrinsechezza, si sono trovati alla fine a dover difendersi dal rischio della nascita di un Kurdistan siriano, in teoria connettibile a uno curdo e a quello iracheno già effettivo. Ciò anche perché gli Stati Uniti, cui sono formalmente alleati, avevano deciso di usare i curdi contro al-Assad, nemico di Israele e dell’Araba Saudita, partner regionali di Washington.

Sono infatti gli Stati Uniti i maggiori perdenti, finora, della partita siriana. Perché hanno dimostrato ancora una volta di non essere partner affidabili dei loro presunti alleati. E perché hanno confermato di non volere o potere impegnarsi fino in fondo in un’altra guerra mediorientale. A Washington basta mantenere un certo grado di equilibrio fra le potenze regionali e di evitare la fine di Israele. Tutto il resto è fumo. E strage.