Il mullah Omar, ex guida spirituale dei talebani afghani, un tempo disse: «Bush mi ha promesso la sconfitta e Allah mi ha promesso la vittoria, vedremo quale delle due promesse sarà mantenuta». A leggerle oggi, queste parole, lasciano un sapore amaro in bocca, come tutte le previsioni che sembrano apocalittiche e vengono perciò sottovalutate. I talebani – vent’anni dopo l’inizio della guerra seguita all’attacco di Al Qaeda alle Torri gemelle di New York (e non solo) – hanno riconquistato l’Afghanistan, una vittoria rapida, forse troppo anche per le previsioni del gruppo. Un’offensiva lunga una decina di giorni che il 15 agosto ha consegnato ai fondamentalisti la capitale, costringendo i Governi occidentali a concertare le evacuazioni con loro e non con il Governo di Ashraf Ghani, come avevano previsto.
A distanza di quasi un mese e mezzo, quello che resta è un Paese che guarda al passato, uno Stato teocratico nelle mani di un gruppo conquistatore che si presenta conciliante a parole, ma conservatore e oppressivo nella pratica. Quella talebana, oggi, è tuttavia una vittoria fragile perché espone il gruppo a un dilemma profondo, cioè quale sia il modo migliore per passare dall’essere un gruppo insurrezionale di miliziani che si rappresentano come la sola resistenza agli occidentali oppressori, a diventare un partito di Governo.
La domanda centrale che oggi i talebani devono affrontare è questa: è più utile nel lungo periodo tutelare la coerenza ideologica del movimento e continuare con l’atteggiamento oppressivo o scendere a compromessi politici con attori regionali e internazionali per ottenere gli aiuti internazionali di cui il Paese ha disperatamente bisogno, rischiando di snaturare il messaggio jihadista?
I talebani del 2021 sanno che il Paese vive una crisi economica profonda e un’allarmante crisi umanitaria. L’Afghanistan esce da anni di economia di guerra, un’economia artificiale basata interamente su aiuti esterni. In un Paese il cui più del 70 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà, un bambino su 5 rischia la malnutrizione acuta e 7 milioni di persone non hanno accesso ai servizi sanitari, ogni servizio dipende da aiuti esterni e donazioni internazionali. I talebani sanno che se non si mostrano pragmatici non arriveranno fondi per fronteggiare la crisi e senza soldi rischiano di perdere anche il consenso. Il grande interrogativo sul futuro è, dunque, come i talebani capitalizzeranno la vittoria dal punto di vista ideologico. Da un lato la crisi economica cui fare fronte dall’altra la conquista su cui investire per perpetuare il messaggio nel futuro, rafforzandolo. I talebani restano infatti un gruppo jihadista nazionalista, non hanno cioè intenzione di esportare il modello fuori dal Paese, ma non c’è dubbio che la vittoria dopo vent’anni di occupazione sarà usata come leva di nuova propaganda da altri movimenti e anche su questo la comunità internazionale dovrà fare i conti.
Oggi c’è indubbiamente una parte di società civile che si oppone al gruppo fondamentalista ma c’è una larga parte del Paese che li sostiene e ha garantito loro di entrare in paesi e villaggi per cooptazione e senza l’uso della violenza. La ragione per cui molte persone hanno supportato i talebani è che il gruppo ha dimostrato non tanto e non solo pazienza strategica per riappropriarsi di intere aree del Paese, quanto che abbia saputo riempire i vuoti di altri: del governo, sempre meno percepito come organo legittimo e sempre più vissuto come un’imposizione dall’alto della coalizione internazionale, e naturalmente dell’esercito, anch’esso corrotto ma sostanzialmente privo della motivazione che invece i talebani avevano. Soprattutto nelle aree rurali, quelle in cui principalmente le forze governative si sono scontrate militarmente con i miliziani talebani, per anni i cittadini si sono sentiti abbandonati a una manciata di poliziotti deputati a garantire la sicurezza ma che spesso diventavano il braccio armato dei signori della guerra, dei leader di potenti milizie che taglieggiavano le persone per arricchirsi. In questo contesto i talebani, con la loro rapida sebbene severa applicazione della sharia (la legge islamica), sono stati percepiti come una soluzione dura ma migliore del male rappresentato dal Governo.
Inoltre per i cittadini afgani i talebani hanno finito per incarnare i sentimenti comunitari legati da un lato all’Islam e dall’altro a un solido istinto nazionalista. I talebani combattevano per una ideologia ed erano disposti a morire, i poliziotti, i soldati non erano invece motivati a morire per una guerra che sentivano a loro estranea, i soldati erano, in più, percepiti come forze di occupazione, fragili e incapaci di gestire una strategia militare senza il supporto occidentale. Ecco perché in molti hanno disertato negli ultimi mesi dell’offensiva che ha portato i talebani a celebrare la vittoria.
Oggi i talebani si presentano come gli unici rappresentanti dell’identità afgana e questa vittoria rischia di diventare una pietra miliare del movimento jihadista e un pezzo centrale della sua narrazione futura. Una vittoria che è un messaggio duplice al mondo: non vi fidate di Governi che non hanno a cuore il bene delle persone e fidatevi invece della jihad (la guerra santa) che – non importa quanto tempo impiegherà – porterà alla vittoria. Anche Al Qaeda si è affrettata a lodare i talebani nei giorni successivi alla presa di Kabul, sostenendo che la loro azione sul campo avesse rafforzato la fede nella guerra santa e la fiducia nella pazienza strategica contro il nemico oppressore. Ideologia rafforzata, dunque, ma anche detenuti ormai fuori dalle prigioni con cui fare i conti: 2000 sono solo i combattenti dell’Isis liberati dalla prigione di Pul-e-Charki a Kabul, tre di loro sono gli attentatori dei recenti attacchi all’aeroporto di Kabul e a Jalalabad.
Il Paese, nelle previsioni degli analisti, rischia di trasformarsi di nuovo in un grande campo di addestramento per jihadisti della regione e questa è una preoccupazione che precede la vittoria talebana. Già nel maggio del 2021, quattro mesi prima del ritiro delle truppe americane, le Nazioni unite stimavano che in Afghanistan fossero presenti da otto a diecimila combattenti stranieri. Come sottolinea un rapporto del Soufan center di New York, Al Qaeda ha già da tempo iniziato a ricreare una rete di campi di addestramento. Già nel 2015, sei anni fa, uno di questi campi vicini al confine con il Pakistan ha richiesto 63 attacchi aerei della coalizione e un attacco di terra di 200 soldati americani per essere smantellato.
A leggere questi dati e il caos calmo di queste settimane in Afghanistan, tutto lascia pensare che i talebani possano diventare di nuovo il rifugio di altre organizzazioni jihadiste e mettere di nuovo in pratica la strategia espressa nel noto testo del 2004, «Management of savagery», che da allora ha codificato la strategia dell’estremismo islamico, indicando tre fasi della battaglia. La prima prevede l’uso della violenza per creare regioni di ferocia fuori dal controllo dei Governi tradizionali, la seconda è riempire i vuoti di potere e la terza è creare una struttura di potere che ha assunto varie forme, il Califfato se si pensa all’Isis, l’Emirato islamico se si pensa al passato e al presente dell’Afghanistan. Ecco dunque che la vittoria talebana può diventare un nuovo trampolino per la jihad globale e accogliere – in assenza di attori occidentali sul campo – miliziani da addestrare per destabilizzare altri Paesi.
Un trampolino per la jihad globale
Quali sono le ragioni interne del rapido successo dei talebani in Afghanistan e cosa rappresenta la loro vittoria per il resto del mondo
/ 27.09.2021
di Francesca Mannocchi
di Francesca Mannocchi