Un suicidio annunciato

Spagna – La bocciatura parlamentare del socialista Pedro Sánchez come candidato alla presidenza del governo è un perfetto esempio di «autolesionismo di sinistra»
/ 05.08.2019
di Gabriele Lurati

Delusione, disincanto e rabbia. Questi tre sentimenti riassumono l’attuale stato d’animo dell’elettorato progressista spagnolo dopo la mancata investitura di Pedro Sánchez come primo ministro. Nonostante svariati appelli e manifesti firmati da intellettuali e artisti, il Partito socialista di Sánchez e il movimento della sinistra massimalista di Unidas Podemos di Pablo Iglesias non sono riusciti a trovare un accordo. Il partito di Iglesias, astenendosi nel voto parlamentare necessario alla nascita del governo Sánchez, ha messo fine ai sogni di vedere una sinistra finalmente unita al governo. Si trattava di un’occasione storica, quella di avere il primo esecutivo formato da una coalizione progressista nella Spagna democratica. Tuttavia nei tre mesi dalla vittoria socialista del 28 aprile i due schieramenti hanno passato buona parte del tempo a fare annunci sui mezzi di informazione ma mai a sedersi assieme per accordarsi su un vero programma di governo. A furia di rimandare, i nodi tra i due partiti sono però venuti al pettine nel momento della verità, nei giorni dell’investitura di Sánchez.

I problemi e gli screzi tra le due formazioni hanno la loro origine lontano nel tempo, trattandosi di due partiti politici con alle spalle culture e storie politiche diverse e che portano con sé una diffidenza reciproca di lunga data. Il Partito socialista obrero español (Psoe) è un partito di centro-sinistra che ha 140 anni di storia, esperienza di governo e di gestione della macchina dello Stato. Unidas Podemos invece è un movimento giovane che include molte anime, tra cui gli eredi del Partito comunista spagnolo (Izquierda Unida), i movimenti anti-establishment nati con la crisi economica (Podemos) e anche una piccola fazione di anticapitalisti.

Nei decenni passati il Psoe ha sempre trattato gli allora comunisti con superiorità, dando per scontato che un appoggio parlamentare fosse sempre un atto dovuto per formare un governo progressista e Izquierda Unida gliel’ha sempre concesso, senza chiedere nulla in cambio. Con l’irruzione di Podemos come attore protagonista dello scacchiere politico spagnolo nel 2015, i rapporti di forza tra i due partiti sono cambiati radicalmente. Il problema è che il Partito socialista non ha mai voluto prendere atto di questa mutata situazione e che non dispone di una maggioranza parlamentare per poter governare da solo (il Psoe ha 123 deputati alle Cortes su un totale di 350) come ha sempre fatto in passato. Inoltre lo scontro di personalità tra i leader dei due partiti, Iglesias e Sánchez, non ha fatto che aggravare la situazione.

La strategia adottata nelle negoziazioni tra Psoe e Unidas Podemos è stata un autentico disastro. A differenza di altri Paesi, dove prima si inizia a negoziare un programma sulla base dei contenuti, e poi solo successivamente ci si mette d’accordo sulla struttura dell’esecutivo e sui nomi dei ministri, in Spagna è avvenuto l’esatto contrario. Mentre in Germania l’ultimo governo di coalizione è stato costruito dopo 80 giorni di lavoro metodico tra Cdu e Spd, in Spagna si è pensato che fosse sufficiente mettere le basi per un esecutivo formato da questi due partiti solo nei giorni precedenti il voto in Parlamento. Una vera e seria negoziazione tra Psoe e Unidas Podemos quindi non c’è stata. Un po’ per il tatticismo di Sánchez che ha lasciato passare tre mesi senza prendere l’iniziativa ma forse soprattutto perché in Spagna c’è un «deficit politico nella cultura delle alleanze rispetto ad altri Paesi europei», come sottolineano i politologi.

L’arroganza (del Psoe) e l’intransigenza (di Podemos) sono stati ostacoli insormontabili nella formazione di un governo di coalizione. In questi casi deve esserci la capacità di costruire dei ponti, cosa che non è avvenuta in Spagna a differenza di quanto succede in altre nazioni anche tra partiti politici molto più distanti ideologicamente (vedasi il caso della Grosse Koalition in Germania o persino dell’Italia, dove partiti con idee politiche contrapposte hanno sottoscritto un contratto di governo). In Spagna, pur essendoci una distanza ideologica minore tra Psoe e Podemos, non si è riusciti a trovare un’intesa. Inoltre i litigi tra possibili alleati di governo hanno fatto arrabbiare i votanti di sinistra che non capiscono come i loro rappresentanti non riescano a mettersi d’accordo.

C’è anche chi sostiene che Sánchez forse non credeva fino in fondo all’accordo con Unidas Podemos, visto che nel suo discorso in Parlamento ha esordito cercando dapprima l’astensione dei conservatori del Partito popolare e dei liberali di Ciudadanos. Ma quello che ha più colpito gli analisti è stato il fatto che Sánchez non abbia nemmeno menzionato il tema catalano, come se non esistesse il problema mentre è proprio la crisi istituzionale aperta con la Catalogna che l’ha messo in difficoltà in primavera, quando il suo governo era caduto per mano degli indipendentisti che gli avevano fatto mancare l’appoggio parlamentare sulla legge finanziaria. I nazionalisti baschi e gli indipendentisti catalani (il partito della Sinistra repubblicana, in particolare) hanno fatto tutto il possibile, agendo quasi da mediatori tra Psoe e Unidas Podemos, affinché nascesse il governo Sánchez.

Per buona parte degli indipendentisti si sarebbe trattato del «male minore», dato che un governo progressista sarebbe stato un po’ più conciliante con Barcellona (rispetto a un governo delle destre che fa dell’anticatalanismo il suo punto cardine) e fra breve tempo comincia una stagione politicamente difficile per i secessionisti. Per l’autunno è infatti prevista la sentenza sui leader indipendentisti catalani tuttora in carcere e vi sarà un probabile anticipo elettorale in Catalogna, dove il governo regionale naviga a vista tra mille difficoltà.

Sánchez ha ancora tempo fino al 23 settembre per formare un governo, altrimenti si andrà al voto il 10 novembre; in tal caso si tratterebbe della quarta elezione generale in soli cinque anni. Il premier in funzione dovrebbe aver capito, dopo questa bocciatura, che in Spagna è finito il tempo per governi monocolore che nascono senza serie negoziazioni. Quindi, o Sánchez trova una soluzione alternativa con Unidas Podemos (come ad esempio concordare uno stabile appoggio esterno parlamentare come avviene in Portogallo, dove i socialisti stanno governando in minoranza da più di tre anni), o ben difficilmente in autunno rivincerà le elezioni.

In caso di una nuova tornata elettorale, Sánchez non godrebbe più della vincente mobilitazione dell’elettorato di sinistra, spinto nell’aprile scorso anche dal desiderio di frenare l’avanzata dell’estrema destra di Vox. I disillusi di sinistra a novembre rimarrebbero in casa e si assisterebbe a una più che probabile vittoria della cosiddetta «Destra tripartita» (Partito popolare, Ciudadanos e Vox che attualmente già governano assieme in varie regioni del Paese). Un ritorno al voto sarebbe quindi controproducente per il Psoe ma soprattutto per Podemos. Sarà un agosto di lavoro dunque sia per Sánchez che per Iglesias, per trovare un’uscita dal vicolo cieco in cui si sono infilati.