Un richiamo all’antico Patto nazionale

Invasione in Siria – La Turchia riuscirà nell’intento di conquistare e difendere una fetta dell’ex impero ottomano di grande valore strategico o resterà intrappolata nella mischia siriana?
/ 14.10.2019
di Lucio Caracciolo

Il 9 ottobre truppe turche hanno cominciato ad avanzare in una fascia di territorio della Siria settentrionale oggi sotto controllo curdo. Obiettivi: spezzare il collegamento fra le milizie locali curde e quelle «sorelle» attive in Anatolia; creare una zona cuscinetto fra Turchia e ciò che resta della Siria, per la gran parte riconquistata dalle truppe di al-Asad con il contributo decisivo russo e iraniano; riallocarvi almeno un milione dei circa tre milioni e mezzo di rifugiati siriani ancora attendati nella Repubblica Turca; compattare il fronte interno attorno al proprio esercito e al presidente, in una fase critica per Erdogan, con l’economia in pessimo stato di salute e la lira turca svalutata.

Dal punto di vista geopolitico, l’operazione è implicitamente inquadrata da Ankara nel recupero del Patto Nazionale, un progetto approvato nel 1920 dall’ultimo parlamento ottomano, quando l’impero appariva moribondo, sminuzzato dai vincitori della Prima guerra mondiale. Nel Patto era prevista, fra l’altro, la riconquista dei Kurdistan siriano e iracheno, da Aleppo a Mosul e a Kirkuk.

L’impero ottomano è formalmente morto, ma non l’identità imperiale turco-ottomana che ha trovato in Erdogan un interprete particolarmente appassionato. Il presidente turco si considera erede dei grandi sultani del passato, neanche fosse parente di Solimano il Magnifico o Fatih il Conquistatore. Se non anche il restauratore del califfato islamico. È interessante notare che finora il richiamo imperial/nazionalista del presidente-sultano ha trovato una certa risonanza nell’opinione pubblica turca, anche in parte delle forze politiche di opposizione. Il patriottismo turco e la popolarità delle Forze armate restano costanti.

L’avanzata delle truppe di Ankara nell’ex-Siria (ex perché la Siria di prima della guerra non esiste e non esisterà più) è stata preannunciata al mondo da un tweet di Donald Trump. Riferendo di una sua telefonata con Erdogan, il presidente degli Stati Uniti, con il solito tono eccitato, riferiva di aver dato luce verde al collega di Ankara, avviando il ritiro delle truppe americane dalla zona. Vista però l’immediata alzata di scudi del Congresso, in particolare di alcuni molto autorevoli senatori repubblicani come Lindsey Graham, e degli apparati militari, diplomatici e di intelligence, che denunciavano il «tradimento» degli alleati curdi, decisivi nel combattere lo Stato Islamico, la Casa Bianca ha corretto il tiro. Dopo qualche ora Trump aveva già cambiato tono e comunicazione, avvertendo Erdogan che se si fosse spinto troppo oltre avrebbe subìto severe punizioni da parte americana.

All’atto pratico, comunque, un centinaio di soldati americani attivi nella zona sono stati spostati verso aree sicure, portando con sé alcuni prigionieri dello Stato Islamico custoditi dai curdi delle milizie Ypg. Nelle aree calde e attorno ad esse permane una poco visibile ma efficiente rete militare e di intelligence Usa. L’aspettativa del Pentagono e della Cia è che Erdogan finisca per impantanarsi in Siria. Ciò che a Washington sarebbe salutato con soddisfazione.

Per quanto formalmente alleati, i rapporti fra Stati Uniti e Turchia sono ai minimi storici. La decisione di Ankara di acquistare missili antiaerei russi S400, a suggellare un clamoroso riavvicinamento con Mosca – nemico per eccellenza dell’impero ottomano e della Turchia, che durante la Guerra fredda presidiava il fronte sud-est della Nato – è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il Congresso pretende oggi sanzioni contro la Turchia se non si ritirerà al più presto dai territori curdo-siriani. Ritiro al momento impensabile.

L’attacco turco ha provocato le prevedibili reazioni delle potenze europee, con coro di accompagnamento delle autorità comunitarie. Naturalmente gli appelli lasceranno il tempo che trovano. Parallelamente, in diversi paesi europei e occidentali le comunità curde hanno organizzato manifestazioni di protesta, anche esse prevedibilmente orientate a risolversi in testimonianza piuttosto che in efficace supporto dei combattenti curdo-siriani.

A questo punto è probabile che fra miliziani curdi e governo di Damasco si stabilisca un certo grado di coordinamento per frenare la penetrazione delle Forze armate turche in territorio formalmente appartenente alla Siria. Così come si possono già notare le preoccupazioni di Teheran e di Mosca, che temono l’ingerenza turca negli affari locali, nei quali sono oggi parte determinante anche se non sempre consonante. Le prossime settimane saranno decisive per capire se la Turchia è in grado di conquistare e difendere una fetta dell’ex impero ottomano di speciale valore strategico. Oppure se nella mischia siriana i turchi finiranno intrappolati.