Nicola Sturgeon torna alla carica. Approfittando della crisi del governo inglese, con il primo ministro britannico Boris Johnson messo all’angolo e costretto da una rivolta senza precedenti a lasciare Downing Street non appena sarà individuato un sostituto, la premier scozzese è determinata a rilanciare la madre di tutte le sue battaglie: l’indipendenza della Scozia. Secondo Sturgeon, nonostante siano passati solo otto anni dal fallito referendum del 2014 che aveva visto il 55% degli elettori scozzesi opporsi alla secessione della nazione dal Regno Unito a fronte del 45% di elettori favorevoli, con Brexit le circostanze sono cambiate. La maggioranza degli scozzesi infatti è contraria all’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, come del resto era emerso nel referendum del 2016: ben il 68% aveva scelto l’opzione «remain» (rimanere) a fronte del 38% che si era espresso per il «leave» (lasciare). Se la successione cronologica dei due referendum fosse stata invertita, oggi la Scozia forse sarebbe una nazione indipendente.
Mentre Johnson esce di scena spinto dalle dimissioni in massa di diversi sottosegretari e ministri in disaccordo con la sua leadership, inclusi il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak e il ministro della Salute Sajid Javid, la numero uno dello Scottish national party (Snp) prosegue il suo cammino, gettando le basi per una seconda consultazione referendaria. C’è pure una data nella proposta di legge che ha già presentato al Parlamento scozzese: il 19 ottobre 2023. Il quesito sarebbe lo stesso del 2014: «La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?». Londra ha sempre indicato di non appoggiare un secondo referendum sulla questione, adducendo che le priorità in questo momento di crisi siano altre con il conflitto russo-ucraino in corso, l’inflazione galoppante e le ferite aperte della pandemia. Tuttavia Sturgeon ha formalmente chiesto all’agonizzante governo inglese di trasferire in via provvisoria il potere di indire la consultazione, che legalmente sarebbe appannaggio di Westminster, a Holyrood come del resto era avvenuto con il primo referendum.
Dall’istituzione del parlamento scozzese nel 1999 ad oggi la capitale inglese ha devoluto ad Edimburgo il potere di legiferare in ambiti che sono generalmente riservati a Westminster solo 16 volte. Prevedendo un rifiuto, poi puntualmente arrivato, la prima ministra scozzese si è munita di altri assi nella manica. Poiché il referendum deve essere «incontrovertibilmente legale», la leader dell’Snp ha comunque rimesso alla Corte suprema britannica il compito di decidere se l’esecutivo scozzese ha il potere o meno di convocare il referendum senza l’approvazione di Londra. Se il tribunale di ultima istanza si pronuncerà a favore di Edimburgo, il suo «Referendum bill» diventerà legge e potrà convocare legittimamente la consultazione in autonomia. Nell’ipotesi contraria, la campagna del partito per le elezioni politiche del 2024 verterà esclusivamente sulla secessione della Scozia, così se l’Snp incasserà oltre il 50% dei voti scozzesi, otterrà di fatto il mandato per indire in piena regola il referendum per l’indipendenza scozzese 2.
La domanda che sorge spontanea però è la seguente: perché adesso? Secondo gli ultimi sondaggi, se gli scozzesi andassero alle urne oggi il partito nazionalista scozzese otterrebbe il 47% dei suffragi e quindi non abbastanza per raggiungere il traguardo prefissato per il suddetto mandato. Tuttavia i Labour – che sotto la guida del leader scozzese del partito Anas Sarwar hanno superato i Conservatori – stanno raccogliendo un numero crescente di consensi e Sturgeon è determinata ad arginarne la minaccia. Come? Massimizzando il supporto al suo partito e facendo leva sul sentimento nazionalista aumentato sulla scia di Brexit e della sfilza di scandali che si sono succeduti a Downing Street. C’è anche chi ravvisa nella tattica di Sturgeon l’eco della strategia di Johnson quando nel 2019 trionfò alle politiche dopo il pronunciamento della Corte suprema contro la sospensione prolungata del parlamento da lui decisa, che il premier strumentalmente utilizzò come argomentazione a riprova che l’establishment voleva fermare Brexit.
Da parte sua il governo britannico ha accusato l’Snp di non avere ancora provveduto a delineare uno scenario preciso in relazione a questioni chiave come valuta da adottare e pensioni in caso di secessione, ricordando che ogni potenziale tentativo di Edimburgo di rientrare nella Ue porterebbe ad un confine rigido fra la Scozia e il resto del Regno Unito. Secondo i detrattori di Sturgeon, inoltre, la battaglia per l’indipendenza giocherebbe a favore di Vladimir Putin, che punta a creare divisioni nell’Occidente in un momento in cui invece c’è bisogno di unità. La Scozia ha contribuito con 65 milioni di sterline ai 2,3 miliardi di fondi stanziati dal Regno Unito a favore dell’Ucraina ed ha accolto circa 6000 rifugiati provenienti dal paese devastato dalla guerra. «Conseguiamo molti più risultati per il popolo che serviamo continuando a lavorare insieme come partner», ha scritto Johnson a Sturgeon alla vigilia delle sue dimissioni, confermando in via ufficiale di non avere alcuna intenzione di concedere il trasferimento di poteri richiesto per la convocazione del referendum. La risposta di Sturgeon però non è tardata ad arrivare. «La democrazia scozzese non sarà ostaggio di questo o qualsiasi altro premier», ha commentato la leader che in ogni caso attende ancora la decisione della Corte suprema britannica. Il rifiuto di Johnson formalizzato poco prima di cedere alle pressioni di fare un passo indietro è parso quasi un estremo tentativo di presentarsi come un improbabile salvatore della patria mentre la nave stava affondando e salvaguardare l’unità nazionale di un regno che – con Brexit e la crisi economica in cui è precipitato – si sta disgregando, minando un’unione che bene o male dura da 315 anni.
Boris Johnson getta la spugna
Giovedì scorso Boris Johnson ha annunciato le sue dimissioni da leader del Partito conservatore britannico, forza di maggioranza in Parlamento, e da premier. Il politico – travolto dagli scandali e da una raffica di dimissioni in seno alla sua compagine – resterà in sella fino alla scelta del suo successore, periodo di transizione che potrebbe concludersi in autunno. Tra i favoriti nella corsa ai vertici si avanzano le ipotesi dell’ex cancelliere Rishi Sunak e della ministra della politica commerciale Penny Mordaunt. La ministra degli esteri Liz Truss ha lanciato un appello «alla calma e all’unità».
Nel momento in cui Johnson faceva un passo indietro, ha rivendicato quelli che considera i successi più evidenti della sua leadership, in particolare il ruolo svolto al fianco di Kiev dopo l'invasione russa. Il Regno Unito «continuerà a sostenere l'Ucraina», ha assicurato a tal proposito. Il premier si è anche detto «immensamente orgoglioso» di aver portato a compimento la Brexit nei suoi anni di governo.
Un Regno sempre meno unito
Approfittando della crisi del governo inglese la premier scozzese rilancia la madre di tutte le sue battaglie
di Barbara Gallino