Sono decenni che Carlo aspetta di salire al trono, sono decenni che l’ipotesi della sua ascesa al trono fa temere la fine della monarchia. D’altra parte, la sua persona stessa – uomo bianco privilegiato e avanti con gli anni – non offre particolari spunti simbolici e invita a riflettere sui fondamentali di un’istituzione la cui sopravvivenza non è sempre facile da argomentare. Il gioco del carisma e dell’incanto fiabesco con lui non funziona, per tornare a sognare bisognerà aspettare almeno il turno di William e Kate, visto che al momento l’unica possibile regina all’orizzonte, Charlotte, ha appena iniziato la terza elementare. Nel frattempo, la carta della continuità rispetto al regno dell’adorata Elisabetta II, la più forte di cui disponga il nuovo sovrano, basterà forse a dargli del tempo e a permettergli di riformare l’istituzione da lasciare nelle mani del figlio. O almeno si spera.
Perché quello che ha davanti Carlo III è un gioco di equilibrismi mica da poco: il Regno Unito, che ha scherzato con la geografia negli ultimi anni uscendo dall’Unione europea, rischia di finire vittima della sua stessa irrequietezza, tra venti indipendentisti interni e grandi crepe nella struttura ormai stanca del Commonwealth. Non solo: in tempi febbrili, il rischio che l’opinione pubblica si rivolti contro una famiglia dalle ricchezze enormi e dai privilegi fuori dal tempo è tutt’altro che basso. Inoltre, il nuovo re è noto per la sua disinvoltura nell’esprimere opinioni politiche e questo è un assoluto tabù per l’equilibrio della monarchia parlamentare britannica, che impone ai sovrani la più rigorosa neutralità.
C’è un film tratto da una pièce teatrale, King Charles III, che parla di lui in toni shakespeariani, raccontando la tragedia di uno convinto di essere diventato re per davvero, con il potere e tutto il resto. Così non è, ovviamente, ma al primogenito di Elisabetta spetta comunque una missione importante, che è quella di dare un senso alla monarchia ereditaria nel XXI dopo la morte di una sovrana rispettata e amata per il suo straordinario senso del dovere e per aver accompagnato il paese per più di sette decenni. I britannici fanno fatica ad ammettere che il paese sta perdendo la sua rilevanza internazionale e se da una parte è un argomento a favore della monarchia, dall’altra mette pressione sulla Corona affinché continui a rispecchiare un’immagine lusinghiera, prestigiosa dell’ex potenza imperiale.
Il Commonwealth, nato dalle ceneri dell’impero, è formato da 56 paesi, di cui 13, oltre al Regno Unito, hanno il re britannico come capo di Stato. Tra questi ci sono Canada, Australia e Nuova Zelanda, tutti luoghi in cui le tendenze repubblicane sono ben più forti che a Londra, dove pure l’inspiegabile decisione di reprimere le voci di dissenso in questi giorni di lutto nazionale potrebbe fomentare alla lunga un sentimento di ribellione. Non bisogna scherzare col fuoco, dare anche la benché minima sensazione di essere fuori dal tempo e soprattutto bisogna prestare attenzione alla gente, che sia in Scozia o alle Fiji, come faceva Elisabetta e tutti i membri più «professionali» di una casa reale che re Carlo ha sempre immaginato agile e ridotta. Quando sua madre è diventata regina nel 1952, il Commonwealth esisteva da appena tre anni e serviva per compensare il processo di decolonizzazione in corso nei paesi dell’ex impero. Era una vasta sfera di influenza, in cui intervenire in modo certamente non molto sostanzioso attraverso offerte di monitoraggio elettorale, di sostegno economico e diplomatico, di un prestigio riflesso e di un’attenzione speciale, da non trasformare mai in ospitalità. A Elisabetta questo mondo e questo compito piacevano molto, ci si dedicava con frequenti viaggi e aveva idee precise, che metteva in atto con tatto e intelligenza. La vetta della sua influenza politica Elisabetta la raggiunse cercando di intervenire sulla questione dell’apartheid in Sud Africa con l’allora premier Margaret Thatcher, che invece non era ostile all’ipotesi di sanzioni per ragioni di interesse commerciale.
Intenti nobili, che però non bastano più: c’è il fantasma dello schiavismo, con cui si sono dovuti confrontare anche due assi della popolarità come William e Kate durante un viaggio nelle Barbados, che l’anno scorso ha votato per diventare una repubblica. E le accuse di razzismo mosse da Meghan, per quanto possano essere giudicate infondate, non hanno gettato una buona luce sui Windsor. Per questo il riavvicinamento di questi giorni in occasione del lutto per la regina, con i due fratelli riuniti con accanto le bellissime mogli, è un passo forte e importante da un punto di vista simbolico. Oltre che dalle credenziali ambientaliste, estremamente attuali, Carlo trae la sua forza dall’essere un padre, un uomo contemporaneo con un passato – un divorzio spaventoso, una nuova vita dopo la morte tragica della ex moglie – che però sa riportare le cose al loro posto, sa ricucire. Che Camilla sia una compagna perfetta e una regina consorte impeccabile lo dimostrano 17 anni di solida presenza e quel video in cui lui si arrabbia per la penna stilografica che macchia. Lui deve firmare, sbaglia la data, lei rimane calma mentre lui si sporca le dita con l’inchiostro, se ne va via stizzito. Lei rimane lì, aspetta che esca, si siede e fa le sue firme, senza fare storie, placida e calma come era sua suocera e come, si spera, sarà suo marito.