Un raid punitivo e spettacolare

Politica estera Usa – La linea rossa che Obama non era riuscito a far rispettare in Siria, Trump oggi la sanziona con tempeste di fuoco ma non vuole rifare il mondo né correggere il Medio Oriente. L’obiettivo resta sconfiggere l’Isis
/ 23.04.2018
di Federico Rampini

Che cosa è accaduto in Siria? A più di una settimana dall’attacco missilistico scatenato da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, si fa quasi fatica a ricordare che ci sia stato: talmente è stato asettico, senza vittime… e irrilevante ai fini dei rapporti di forza sul terreno, nonché inutile se l’obiettivo è alleviare le sofferenze del popolo siriano. Tant’è che russi e siriani, dopo avere sostenuto che la strage chimica era una montatura dei servizi segreti inglesi, hanno negato l’accesso agli esperti internazionali di armi chimiche.

Appare tanto più singolare l’iniziativa di cosiddetti «pacifisti» inglesi, che hanno deciso di dimostrare a Londra contro «la guerra in Siria»: ce l’avevano con la partecipazione del loro governo all’intervento americano. Ma la guerra in Siria, quella vera, ha per protagonisti il macellaio Assad e il suo cinico sostenitore Vladimir Putin. È a Mosca che bisognerebbe manifestare: contro la partecipazione del governo russo a quella carneficina.

La tragedia siriana è un test per la politica estera di Donald Trump. Prima riluttante a mischiarsi della vicenda. Poi deciso a sanzionare l’uso di armi chimiche; ma altrettanto determinato a non farsi risucchiare in un intervento vero. La ricostruzione dei fatti aiuta a capire con che tipo di America abbiamo a che fare.

I vertici militari non hanno mai abbracciato la visione isolazionista di Trump, che in campagna elettorale e anche dopo ha ripetuto: America First significa ricostruire casa nostra, non faremo più i gendarmi del mondo. In Medio Oriente questo presidente è sempre tentato dall’idea di delegare le grandi scelte ai due alleati di ferro, Israele e Arabia saudita. Il disimpegno da quell’area cruciale, dove l’America sostituì l’impero britannico ai tempi di Franklin Roosevelt, è agevolato dall’autosufficienza petrolifera degli Stati Uniti: una rivoluzione sconvolge le gerarchie energetiche planetarie, già da anni non una sola goccia di petrolio arabo viene importata negli Stati Uniti. Ma il Pentagono non condivide la logica mercantilista di America First, presidiare Mediterraneo e Golfo Persico significa conservare una leadership mondiale, la capacità di controllo sulle rotte cruciali che portano l’energia alla Cina. I generali sottolineano i limiti delle convergenze con Israele: quest’ultimo attacca le milizie sciite pro-iraniane in Siria, l’America considera l’Isis il nemico numero uno.

Come conciliare un ritiro di truppe terrestri dalla Siria e l’attacco missilistico punitivo? Il precedente è di un anno fa: Trump si era insediato da poco alla Casa Bianca quando ordinò una pioggia di 59 missili Tomahawk contro la base aerea siriana di Al Sharyat, anche allora come castigo per l’uso di armi chimiche. Barack Obama quando fissò la sua «linea rossa», aveva minacciato l’intervento militare nel 2013. Poi ci ripensò, con un voltafaccia che molti considerano fatale per la perdita di credibilità degli americani in quell’area. La scusa di Obama: il Congresso non lo autorizzava. Putin gli offrì una scappatoia portandosi garante dell’eliminazione di ogni arsenale chimico posseduto dalle forze di Assad. Nel 2013 sia Trump sia John Bolton (il suo consigliere per la sicurezza nazionale, di fresca nomina) disapprovarono l’ultimatum di Obama alla Siria, sostenendo che non erano in gioco interessi strategici degli Stati Uniti. Ma già un anno fa Trump coi suoi 59 missili aveva fatto una concessione alla linea del Pentagono: è interesse vitale dell’America castigare chi viola i trattati e usa armi di distruzione di massa.

Il bis del 2018 è arrivato nella tarda serata di venerdì 13 aprile: una pioggia di 110 missili concentrata su pochi minuti. La Russia ostenta indignazione ma è rimasta a guardare, essendo stata preavvertita e risparmiata dall’attacco Usa. Il raid è parso impeccabile, nessun aereo occidentale abbattuto, niente vittime collaterali, solo impianti chimici colpiti. La «linea rossa» che Obama non seppe far rispettare, questo presidente la sanziona con tempeste di fuoco. Ma non vuol rifare il mondo, né correggere il Medio Oriente. Se i russi non reagiscono al di là delle proteste diplomatiche, e se Assad non sarà recidivo con le armi proibite, quello del 13 aprile resterà un raid una tantum, spettacolare e irrilevante. Trump ribadisce: «In Siria ci stiamo solo per sconfiggere l’Isis e praticamente ci siamo riusciti, presto riporteremo a casa i soldati». Il resto non lo interessa, Putin può consolidare il suo protettorato sulla Siria e rafforzare le triangolazioni con Iran e Turchia. Tutti contenti? Salvo morti feriti e profughi dell’interminabile guerra civile siriana.

Smentito chi pensava che Trump fosse in cerca di una vera guerra per distrarre dagli scandali interni che lo assediano, il presidente ha liquidato in poche ore il dossier siriano, col minimo dei rischi. Decisivo è stato il ruolo dei suoi militari, dal generale John Mattis (segretario alla Difesa) al direttore di stato maggiore Kenneth McKenzie: hanno svolto un ruolo moderatore, hanno guadagnato tempo rispetto agli ultimatum frettolosi che Trump twittò subito dopo la strage chimica. Hanno usato il ritardo per tenere attive tutte le linee di comunicazione coi russi anticipando nei minimi dettagli le loro mosse. Al punto che il raid somiglia a una messa in scena: i tre centri di ricerca e produzione di armi chimiche sono stati colpiti quando ormai erano vuoti non solo di uomini ma probabilmente anche di materiale. Lo spettacolo del dispositivo russo di difesa aerea e anti-missile, «sempre operante durante l’attacco, mai entrato in azione» (descrizione del generale McKenzie), la dice lunga sul livello di coordinamento tra i militari delle due superpotenze.

Il Pentagono si auto-congratula: «Il programma di armi chimiche è stato incapacitato e ricacciato indietro di molti anni». Probabilmente è falso. Un anno fa i 59 missili Tomahawk scagliati su una base aerea siriana la misero fuori uso solo per qualche giorno.

Nel discorso alla nazione in cui annunciava il lancio dei missili Trump ha riassunto il suo «nazionalismo isolazionista». È un presidente che adora le forze armate, ma non vuole usarle come gendarme globale per raddrizzare torti: «Non possiamo ripulire il mondo dal male né intervenire ovunque vi sia una tirannide. Il destino del Medio Oriente è nelle mani dei suoi popoli». Si riallaccia ad un’antica tradizione della destra che risale a Andrew Jackson, il presidente populista del primo Ottocento; è lontana anni-luce dalla visione imperiale dei neo-conservatori che spinsero George W. Bush a invadere l’Iraq per rifare il Medio Oriente a loro immagine e somiglianza; è anche disillusa rispetto all’idealismo progressista di leader democratici come Wilson, Roosevelt, Obama.

Il rapporto con Putin resta di grande freddezza, e di certo Trump si sta chiedendo perché. Un po’ dà la colpa ai suoi nemici interni che col Russiagate hanno avvelenato il dialogo con Mosca. Resta da capire perché Putin abbia avallato un attentato al veleno contro un suo ex agente in Inghilterra, e abbia consentito la strage chimica di Assad. Ancora tre settimane fa, Trump gli stava lanciando un invito alla Casa Bianca. Però: mai dire mai.

Trump fa politica estera spiazzando tutti in un crescendo di disordine creativo. In Siria ha mostrato i muscoli ma il suo obiettivo resta di andarsene al più presto possibile da un conflitto che non lo interessa. Lo ha detto chiaro a Emmanuel Macron, smentendo il presuntuoso francese che diceva di averlo convinto a rimanere. Dopo l’affronto d’immagine inflitto a Putin con quella breve pioggia di fuoco, Trump ha stoppato chi voleva nuove sanzioni sulla Russia: segno che lui non rinuncia al progetto originario di un’intesa con l’uomo forte di Mosca.

Fervono i preparativi del summit a tu per tu con Kim Jong Un e il presidente americano rivela che a esplorare in avanscoperta lui aveva mandato in Corea del Nord il capo (uscente) della Cia nonché segretario di Stato in pectore, Mike Pompeo. «Denuclearizzare – twitta Trump – sarà una grande cosa per il mondo intero ma anche per la Corea del Nord!» Tanto ottimismo sembra prematuro visto che Pompeo è tornato da Pyongyang a mani vuote, per ora è avventato scommettere che il dittatore comunista voglia davvero rinunciare al deterrente nucleare.

In quanto alla Cina, la vera rivale strategica: da un lato Trump è pronto a riconoscere il ruolo positivo di Xi Jinping nel propiziare il futuro summit con Kim; d’altra parte l’escalation di sanzioni commerciali non si arresta, anzi è rafforzata da nuovi ostacoli contro la penetrazione di aziende cinesi nel settore hi-tech degli Stati Uniti.

Tuttavia il bilancio è meno catastrofico di quanto ci si aspetterebbe. A furia di preannunciare l’Apocalisse, si crea un effetto assuefazione e chi perde credibilità sono gli esperti, non Trump che ne ha poca da perdere.

Riassumendo le catastrofi annunciate e poi rientrate. In Siria non c’è stato nessuno scontro diretto tra americani e russi, l’inizio della terza guerra mondiale è rinviato ancora una volta. Qualunque cosa faccia questo presidente in Medio Oriente, è difficile eguagliare il bilancio negativo dei suoi predecessori. Anche in Corea del Nord niente conflitto atomico, anzi la Corea del Sud ora parla addirittura di un trattato di pace. In quanto alla spirale rovinosa del protezionismo: finora Xi Jinping ha mostrato apertura a diverse richieste di Trump sul rispetto della proprietà intellettuale e la reciprocità di accesso ai mercati. Magari sono promesse fatte per guadagnare tempo e non saranno mantenute. Ma Obama non aveva ottenuto di più. Certo alla politica estera di Trump mancano tante cose: da una vera strategia delle alleanze, a un grande disegno coerente. Però di grandi disegni, in passato, furono lastricate le vie dell’inferno.