Un presidente che non avrà vita facile

Il neoeletto Boric ha promesso una riforma strutturale della società cilena in senso paritario ma le resistenze interne sono forti
/ 27.12.2021
di Angela Nocioni

Sorpresa. Nel conservatore e cattolicissimo Cile, con istituzioni e società tuttora irregimentate nella gabbia di norme sopravvissute alla dittatura di Augusto Pinochet (1973-90), dove anche la socialista Michelle Bachelet per governare è rimasta incatenata ai vincoli imposti dalla Democrazia cristiana sua alleata, è stato eletto presidente Gabriel Boric, un trentacinquenne spuntato dalle barricate in fiamme che in due ondate successive, nel 2011 e nel 2019, hanno bruciato le strade di Santiago, di Valparaiso, giù giù fino alle terre sperdute del sud. Ha stravinto con il 56% dei voti. Nelle elezioni più partecipate da quando, dieci anni fa, è stato abolito il voto obbligatorio. E con 11 punti di distacco dal rivale, Antonio Kanz, un pinochettista nostalgico nonostante abbia 55 anni. Il candidato più a destra che il Cile abbia mai avuto dalla fine del regime militare.

Boric ha preso la testa del movimento studentesco dopo il 2010, quando si è allontanata dall’università la ragazza sorta come leader nel 2009, Camilla Vallejo, una trascinatrice, che sorprese il mondo politico latinoamericano attraverso una molto barricadera intervista alla Cnn. Boric a 28 anni è entrato in Parlamento. Non è del partito comunista e non è nemmeno gruppettaro. È stato abile e attento nel presentarsi sempre come uno dei tanti che hanno bloccato Santiago negli ultimi anni di proteste contro l’uscente Governo di Sebastián Piñera, senza atteggiarsi a capo. È figlio di immigrati poveri, viene dalla provincia profonda verso l’Antartide. Al ballottaggio era atteso un testa a testa con Kanz, al quale si supponeva arrivassero anche tutti i voti di Parisi, l’outsider piazzatosi terzo al primo turno, un trumpiano che non mette piede in Cile da undici anni perché ha un arretrato di milioni di alimenti non pagati ai figli e che ha fatto il pieno di voti al nord grazie alla campagna giocata tutta contro gli immigrati: «Fuori boliviani, peruviani e pezzenti vari dal Cile!». Slogan molto graditi nelle terre settentrionali, le terre arse delle miniere, dove i minatori non sono più gli operai comunitari anti-regime degli anni Settanta, ma immigrati che si muovono in jeep 4x4 e odiano gli immigrati arrivati dopo di loro. Soprattutto se sono venezuelani accampati in tende di fortuna aspettando un passaggio per Santiago. Gente caraibica, caciarona e spiantata. Invasori planati da un altro pianeta.

La sorpresa del distacco di Boric sul rivale è stata data dal voto in massa, senza precedenti e non previsto, arrivato da donne e under 30, ma soprattutto dai quartieri marginali da cui si sono mosse a piedi colonne di elettori. Perché la domenica del voto in molti sobborghi poveri della capitale i trasporti pubblici si sono magicamente bloccati. Invece del solito riot di protesta, è partita una lenta marcia verso i centri elettorali. Invece del corri e brucia, un cammina e vota. Fenomeno inedito.

Boric aveva certi solo i voti, per loro natura incerti, del Frente amplio, rete di sigle nata dopo la rivolta del 2019, e quelli del Partito comunista (che rischiavano di costargli al ballottaggio la perdita di tutto il centro moderato spaventato da Kanz ma terrorizzato dal Pc). Ha guadagnato verso il secondo turno l’appoggio di una parte del Partito socialista. Ma non avrebbe mai vinto se non fosse riuscito a recuperare quella valanga di voti di sinistra per anni naufragati nell’astensione. Nel primo discorso di piazza Boric ha detto che formerà «un Governo con un piede nella strada», ha confermato che abolirà l’odiatissimo sistema dei fondi pensione (osannato negli anni Novanta come modello puro di liberismo classico da imitare) e ha promesso una riforma strutturale della società in senso paritario, cominciando dal sistema scolastico inaccessibile ai non ricchi perché interamente privatizzato.

Grande attesa per capire chi farà il ministro delle Finanze (si dice sia disposto a nominarlo subito) chi farà il ministro dell’Interno (tumulto nel Pc e nel Frente amplio accusati di non aver mai condannato davvero le violenze nei riot degli ultimi 2 anni) e chi farà ministro degli Esteri (e lì i comunisti hanno già detto che la diplomazia la farà il presidente dalla Moneda, così da non dover rivedere i loro rapporti con i regimi in Nicaragua, Venezuela e Cuba, rapporti troppo fraterni perché non vengano comunque rinfacciati al neopresidente il quale può solo sperare che ad ottobre vinca Lula da Silva le presidenziali in Brasile per poter contare su una robusta sponda). Quelli che Boric rischia di pagare cari e subito sono i voti arrivati all’ultimo minuto dal Partito socialista. La sempreverde Isabel Allende, presidente dei socialisti, già spuntava a mezz’ora dal risultato da tutti i telegiornali con grandi smanie di tornare protagonista.

In Cile la differenza sociale è perpetuata dal funzionamento del modello di studi universitari adottato finora. Un laureato entra nel mercato del lavoro con 30 o 40 mila dollari di debito da restituire alle banche che gli hanno erogato il prestito scolastico per accedere alle prestigiose università di Santiago. È quello il soggetto sociale che ha travolto la destra a Santiago, la destra più conservatrice e più razzista d’America. Una destra che però resiste. La sera prima del voto il capo degli industriali diceva alle tv in disperato appello al voto: «Se vince Boric in Cile si instaurerà la dittatura del proletariato»… La guerra contro il Governo nato dalle barricate universitarie sarà senza esclusione di colpi.