Un «plus» per la pace

La Svizzera vuole entrare a far parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. La domanda ufficiale è già stata inviata da diverso tempo e dovrà essere sottoposta al voto dell’Assemblea generale
/ 08.03.2021
di Marzio Rigonalli

Il Consiglio federale guarda in alto e aspira a ottenere un seggio in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Trattasi di uno dei dieci seggi non permanenti che, insieme ai ben più noti cinque seggi permanenti, formano la struttura di questo importante organo dell’Onu. I seggi non permanenti hanno una durata di due anni e vengono assegnati dall’Assemblea generale, che rispetta una certa ripartizione tra i vari Continenti.
Sono ormai trascorsi vent’anni dall’adesione della Svizzera all’Onu ed è la prima volta che il Governo federale si muove in questa direzione.

La candidatura porta sul biennio 2023-2024. È stata inoltrata già nel 2011 e, in questi ultimi anni, è stata confermata a più riprese, sia dal Consiglio federale che dalle due Camere. Ora è entrata nella sua fase finale ed è stata presentata a New York, alla fine del mese di ottobre 2020, ai rappresentanti di tutte le missioni Onu, con lo slogan «Un più per la pace» («A plus for peace»). A causa della pandemia la presentazione è avvenuta in maniera virtuale. Nei loro discorsi la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga e il capo della diplomazia, Ignazio Cassis, hanno evidenziato i punti di forza della candidatura elvetica. In particolare una lunga tradizione di promozione della pace, il continuo impegno in favore del diritto internazionale umanitario, dell’aiuto umanitario e dei diritti umani, nonché l’importanza di Ginevra come centro internazionale.

La candidatura ha buone possibilità di essere accolta. Viene combattuta soltanto da Malta, che aspira a occupare lo stesso seggio e fin ora può vantare numerosi appoggi sul piano internazionale. La decisione verrà presa dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nella prima parte dell’anno prossimo. Per essere scelti bisognerà ottenere almeno due terzi dei voti, ossia 129 voti dei 193 stati membri dell’Onu.

Il Consiglio di sicurezza è l’organo mondiale più importante nell’ambito del consolidamento della pace e della sicurezza. Viene spesso criticato, perché si ritrova bloccato e incapace di agire a causa del veto di uno o di più Stati membri permanenti. La sua composizione e il suo funzionamento sono stati definiti alla fine della Seconda guerra mondiale e sono lo specchio della realtà di allora. Oggi la situazione internazionale è diversa. Sono cambiati gli equilibri internazionali, si sono affacciate nuove potenze e sono emerse nuove realtà. Una riforma del Consiglio di sicurezza sarebbe sicuramente auspicabile, in modo da poter tener conto di questi cambiamenti e da poter dare spazio a Stati importanti sul piano politico ed economico, come per esempio l’India, il Brasile e la Germania. Una simile riforma, però, implicherebbe anche il consenso degli attuali cinque stati membri permanenti, ossia Stati uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna. Stati che hanno interesse alla difesa dello status quo e che non sono disposti a cedere nemmeno una parte del loro potere decisionale.

Ci si può chiedere quali sono gli obiettivi che il Consiglio federale intende raggiungere con l’inoltro della candidatura. Perché converrebbe alla Svizzera diventare membro di un organo la cui attività è quasi costantemente bloccata dal veto di uno o di più Stati membri permanenti? La risposta risiede nelle varie dichiarazioni rilasciate fin ora dal Governo e dai responsabili della politica estera svizzera. Il Governo è convinto di poter trovare nel Consiglio di sicurezza una tribuna che gli consenta di aumentare la propria visibilità all’interno delle organizzazioni multilaterali, di intensificare i suoi contatti sul piano mondiale e di dar prova delle sue capacità a promuovere la pace e la sicurezza. Nel suo discorso davanti ai rappresentanti di tutte le missioni Onu, lo scorso 30 ottobre, la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga ha dichiarato: «Noi cerchiamo soluzioni consensuali sia nella nostra politica interna che in quella estera e l’unica via per creare consenso è il dialogo».

Un dialogo, ha poi aggiunto, alla base di una lunga tradizione che annovera il rispetto dello stato di diritto e della democrazia, nonché il continuo impegno in favore della pace e della sicurezza. Un dialogo che merita di essere continuato e, possibilmente, intensificato. Più concretamente il Consiglio federale nella presenza all’interno del Consiglio di sicurezza vede anche la possibilità di meglio difendere e sostenere la sede europea dell’Onu a Ginevra, una sede nei cui confronti non mancano gli appetiti di alcune capitali europee. Il Consiglio federale ha promesso di coinvolgere il Parlamento attraverso le commissioni di politica estera delle due Camere. Le commissioni verranno informate e consultate e, se in alcuni casi si rivelerà necessario, potranno anche essere coinvolte nella presa di decisioni.

La posizione del Consiglio federale è stata ampiamente criticata. Due sono le principali critiche emerse. La prima riguarda la neutralità e ha come principale protagonista l’Udc. Il principale partito politico svizzero ha cercato di bloccare la richiesta di un seggio nel Consiglio di sicurezza con vari atti parlamentari, in particolare con una mozione. Ha accusato il Governo di farsi guidare da motivazioni di prestigio e l’ha invitato a puntare sulla strada maestra dei buoni servizi, una scelta che di solito viene accettata da tutti e che si fonda sul rispetto della neutralità. Il tentativo però è fallito. La maggioranza parlamentare ritiene che la Svizzera, se entrerà nel Consiglio di sicurezza, verrà scelta come Paese neutrale. La sua neutralità non sarà quindi messa in pericolo. D’altronde Paesi che vantano una certa tradizione nell’ambito della neutralità, come l’Austria e la Svezia, sono già stati membri del Consiglio di sicurezza e non hanno incontrato problemi legati alla loro collocazione internazionale. Infine, ed è un argomento avanzato dai sostenitori della candidatura, la scelta del Consiglio federale fa parte di quella neutralità attiva che Micheline Calmy-Rey, consigliera federale e responsabile del Dipartimento degli affari esteri dal 2003 al 2011, ha lanciato e sostenuto, e che in seguito non è stata abbandonata.

La seconda critica mossa contro la candidatura appare più pertinente. Riguarda le possibili conseguenze negative cui la Svizzera potrebbe dover far fronte dopo una decisione presa dal Consiglio di sicurezza, o bloccata da un veto, alla quale avrebbe partecipato anche il rappresentante elvetico. Prendiamo come esempio una risoluzione che il Consiglio di sicurezza vorrebbe prendere contro la Cina, che verrebbe accusata di gravi violazioni dei diritti umani. In un contesto ricco di tensioni, Pechino potrebbe decidere di far pressione su Berna, minacciando di adottare sanzioni economiche contro la Svizzera, se il nostro Paese parteciperà all’approvazione della risoluzione. Che cosa farà allora il Consiglio federale? Si schiererà in difesa dei diritti umani o cercherà di non compromettere gli interessi economici del Paese? Oppure cercherà la classica via di mezzo? Sono situazioni che richiedono molta abilità politica e diplomatica e che vanno affrontate senza snaturare le caratteristiche della politica estera elvetica. Non sono però scenari suscettibili di bloccare la volontà di svolgere un ruolo attivo in un importante organo mondiale, volontà che il Consiglio federale intende mantenere.