L’Africa irrompe sulla scena della grande diplomazia? Ha fatto scalpore l’annuncio dato dal presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, su una missione di alcuni leader del suo Continente che dovrebbero recarsi in Russia e in Ucraina per una mediazione di pace. Insieme con il Sudafrica sarebbero coinvolti Congo, Egitto, Senegal, Zambia, più un Paese non africano, l’Arabia Saudita. Se si toglie Riad, che grazie al petrolio e alla leadership dell’OPEC può avere un’influenza su Mosca, gli altri non sembrano poter esercitare pressioni efficaci. L’iniziativa sembra dettata dai disagi economici che la guerra continua a provocare, in particolare attraverso l’inflazione dei prezzi alimentari. È lecito lo scetticismo per varie ragioni. L’Ucraina può dubitare che questi mediatori siano davvero neutrali, visti i legami che hanno con la Russia.
Il Grande Sud globale scivola verso la Cina e la Russia. Molti Paesi che si dicono «non allineati» – riecheggiando la posizione del Terzo mondo nella prima guerra fredda – nei fatti si comportano come degli amici del blocco anti-occidentale, con il quale hanno molte affinità ideologiche. Una prova è evidente nella mappa dei Governi che non aderiscono alle sanzioni contro la Russia, alcuni dei quali rifiutano perfino di condannare l’invasione dell’Ucraina. Un altro segnale significativo è la tensione diplomatica fra gli Stati Uniti e il Sudafrica, dopo che Washington ha accusato il Governo di Pretoria di aver venduto armi a Mosca. Sullo sfondo c’è la lenta metamorfosi dei BRICS, il club delle potenze emergenti che nacque come un’associazione economica ma tende ad acquisire un ruolo politico, e attira un bel po’ di nuove candidature. I BRICS – acronimo che per adesso unisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – si presentano implicitamente come l’anti-G7, l’architrave di un nuovo ordine globale anti-occidentale.
Il caso del Sudafrica è importante perché ha una valenza generale: racchiude alcune delle ragioni per cui l’Africa intera è impermeabile alla visione occidentale: sull’Ucraina e su tante altre cose. Il presidente Cyril Ramaphosa fece scalpore a febbraio lanciando delle manovre militari congiunte tra le sue forze armate e quelle di Russia e Cina: la manifestazione di amicizia con Mosca e Pechino avveniva a ridosso del primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina. Ma forse quel gesto sembrerà poca cosa, al confronto del prossimo schiaffo all’Occidente, se si verificherà. Il Sudafrica ha la presidenza di turno dei BRICS e al prossimo summit di quella organizzazione nel mese di agosto potrebbe invitare Vladimir Putin in persona. Qualora si presentasse al vertice, Putin sfiderebbe quel mandato di cattura internazionale spiccato dalla Corte Penale Internazionale… a cui il Sudafrica aderisce. Poiché il Sudafrica sarebbe in un dilemma tremendo – arrestare Putin sul proprio territorio o stracciare un trattato che ha firmato – il presidente Ramaphosa ha proposto l’uscita del suo Paese dalla Corte Penale Internazionale. La decisione drastica però non fa l’unanimità a casa sua, e per il momento la pratica è stata abbandonata. Restare formalmente un Paese membro di quella Corte, e disattenderne le decisioni, è un’opzione. Non sarebbe la prima volta che Pretoria calpesta gli obblighi di cui è firmataria rispetto alla Corte Penale dell’Aia: nel 2015 si rifiutò di procedere all’arresto del dittatore sudanese Omar-al Bashir, sul quale pendeva un mandato di cattura, mentre era in visita a Pretoria per un summit dell’Unione africana. La prospettiva che il Sudafrica possa accogliere Putin in agosto con tutti gli onori, ha fatto salire ulteriormente la tensione con Washington. Ramaphosa ha mandato una delegazione di suoi collaboratori negli Stati Uniti per dialogare con l’Amministrazione Biden. La missione dev’essere stata un fiasco, a giudicare dal risultato: si era appena conclusa, quando l’ambasciatore USA a Pretoria, Reuben Brigety, un afroamericano con una lunga esperienza al Dipartimento di Stato, ha denunciato ufficialmente la vendita di armi dal Sudafrica alla Russia. La fornitura era avvenuta nel mese di dicembre 2022. Il Governo Ramaphosa si è giustificato dicendo di aver consegnato armi che erano già state ordinate prima dell’invasione in Ucraina. L’Amministrazione Biden ha manifestato malumore, e tuttavia ha evitato di compiere il gesto che sarebbe stato la naturale conseguenza: mettere sotto sanzioni il Sudafrica.
Perché? L’unica spiegazione ragionevole è che sanzionare il Sudafrica potrebbe avere un effetto a cascata su altri Paesi africani, acutizzando la loro ostilità verso l’America e l’Occidente. Tanto più che accostare la parola «sanzioni» al nome del Sudafrica evoca altre pagine di storia: l’ultima volta che Pretoria era stata messa sotto embargo dal Congresso degli Stati Uniti, fu per castigare il Governo bianco che gestiva il sistema razzista dell’apartheid. Risalire all’epoca pre-Mandela è il riflesso condizionato per molti politici o comuni cittadini del Sudafrica. Gli Stati Uniti avevano appoggiato per decenni l’apartheid, in nome della lotta al comunismo mondiale, visto che il movimento nero dell’African National Congress era appoggiato dall’Unione Sovietica.
Gli americani sono pieni di complessi di colpa per quel che fecero allora. Arrivano a giustificare l’attrazione fatale verso Mosca, in nome dell’aiuto che Mandela ricevette dall’URSS quando l’Occidente voltava le spalle alla sua lotta per i diritti civili. Ancora di recente il segretario di Stato USA, Antony Blinken, ha dichiarato: «Certamente la storia non si cancella in poco tempo. Durante la guerra fredda l’URSS stava dalla parte giusta in Sudafrica, con le forze di liberazione. L’America purtroppo era dalla parte sbagliata, troppo indulgente o simpatizzante verso il regime dell’apartheid. Questo ricordo pesa ancora oggi». Le parole di Blinken sono un atto dovuto e un gesto di onestà. Ma servono a qualcosa? In realtà l’America non riscuote alcun beneficio dalla sua autocritica. Né riesce a valorizzare l’altra metà della sua storia: cioè l’enorme mobilitazione della società civile statunitense contro l’apartheid, che sfociò nelle sanzioni, nell’isolamento del regime bianco razzista e alla fine contribuì alla vittoria di Mandela.
Un’esperta dell’Africa, Michelle Gavin del Council on Foreign Relations, ha scritto un’analisi lucida in proposito: «C’è una storia altrettanto innegabile di opposizione americana contro le politiche dell’apartheid, che spinse il Congresso di Washington a varare la legge Anti-Apartheid Act (con tutte le sanzioni), ma è chiaro che non viene ricordata in Sudafrica. Dove invece si preferiscono ricordare altre azioni americane, come la guerra in Libia nel 2011 e le sue conseguenze. Tutto viene racchiuso dentro una narrazione sudafricana che descrive un Occidente arrogante, militarista, pericoloso. Mentre le brutalità della Russia, in casa propria o all’estero, vengono comprese per giustificare l’immagine di un partner attraente, intento a rifondare l’ordine internazionale». Questa è una descrizione che non si limita al solo Sudafrica: cattura fedelmente lo stato d’animo di gran parte dei Paesi africani e anche di altre Nazioni dell’Asia o dell’America latina che appartengono al Grande Sud globale.
Gavin prosegue così: «Il Sudafrica non è solo un Paese dove molti politici vedono l’America come un nemico, e perseguono azioni mirate a indebolire gli Stati Uniti e rafforzare i loro avversari. È anche un Paese dove il partito politico dominante può vantare una emozionante storia di resistenza all’oppressione, insieme con un terribile record di corruzione ai danni del popolo sudafricano. La sua lotta per la liberazione le ha conquistato il rispetto, la dimensione della sua economia (benché tutt’altro che sana) viene ammirata nel Continente, ma il Sudafrica di oggi non può essere celebrato né come uno Stato di diritto, né come un modello di Governo democratico che opera per il bene della sua popolazione. Ha una magistratura indipendente e una vigorosa società civile, tutte fonti di forza, ma queste qualità brillano perché resistono contro uno Stato sempre più malato».
Anche questa è un’analisi che si può facilmente estendere ad altre parti dell’Africa, e del Grande Sud Globale. Dove il risentimento anti-occidentale è un collante ideologico formidabile, che spesso diventa anche un alibi per zittire le proteste della popolazione contro Governi incapaci e corrotti. Intanto questo Grande Sud sente un’attrazione fatale verso delle istituzioni «alternative». La storia dei BRICS è curiosa perché il termine fu inventato da un economista americano all’inizio del millennio per mettere insieme quelle destinazioni appetibili per gli investitori che lui voleva segnalare ai suoi clienti. Poi i BRICS hanno preso «coscienza di sé». Ora c’è una coda di aspiranti nuovi membri che sperano di essere ammessi: solo in Africa vorrebbero entrare a farne parte Algeria, Egitto, Nigeria e Senegal. Da altre parti del mondo si segnalano le candidature di Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Kazakistan, Indonesia, Argentina. Se dovessero entrarci tutti, i BRICS diventerebbero un gruppo gigantesco, con al suo interno il 30% del PIL mondiale, il 50% della popolazione del pianeta, nonché una quota smisurata di risorse energetiche e minerarie.