Il 6 dicembre è una data storica per l’economia e la politica svizzera. E quest’anno scadeva il trentesimo della votazione popolare sull’adesione della Svizzera allo Spazio Economico Europeo (SEE). Il popolo svizzero decise, a strettissima maggioranza (50,3%), di non aderire. Trent’anni fa le opinioni erano molto divise fra coloro che erano per principio contrari a qualsiasi accordo con l’UE (allora ancora CEE) e coloro che ritenevano inevitabile un avvicinamento alla CEE. Fra questi, parecchie persone pensavano anche che un’adesione alla CEE poteva essere un passo importante verso l’avvicinamento alle istituzioni europee, senza passare necessariamente attraverso una pura e semplice adesione. Il no popolare annullò però anche questa possibilità, lasciando in pratica aperta al Consiglio federale la strada di una richiesta di adesione.
Nel frattempo però anche la CEE ha compiuto parecchi progressi verso un’unione politica, oltre che economica. Si è allargata fino a raggiungere 27 Paesi membri, ha anche tolto dalla sua definizione il termine «economica», diventando l’attuale UE. In Svizzera si è però fatta strada l’idea di non accettare nessun accordo quadro con l’UE e di perseguire la via degli accordi bilaterali. Il Consiglio federale dovette quindi ritirare la domanda di adesione all’UE. Negli ultimi tempi si sono però manifestate parecchie difficoltà negli accordi con l’UE. Per esempio nel settore della ricerca e della formazione, importantissime per la Svizzera, o in quello dell’elettricità. Difficoltà che cominciano a riflettersi anche in campi non collegati a questioni economiche, come gli accordi di Schengen-Dublino.
La situazione di stallo in cui ci troviamo ha indotto il gruppo denominato «Alleanza forti + connessi», che raduna un’ottantina di organizzazioni, a pubblicare il 6 dicembre un «Appello ad agire» al Consiglio federale, invitandolo a fare chiarezza sulla situazione, prima delle elezioni federali del prossimo autunno. Il gruppo chiede in particolare al governo «quale forma vuole dare ai rapporti con l’UE e, quindi, integrarli meglio nella realtà europea». Del gruppo fanno parte 196 personalità della politica svizzera, fra cui otto ex-consiglieri federali. Personalità che ritengono possibile oggi un compromesso che possa stabilizzare i rapporti tra la Svizzera e l’UE. Un’alternativa alla situazione attuale, che in sostanza comporta una erosione di quanto finora raggiunto. È tempo di agire rapidamente poiché – dice sempre il gruppo – oggi vi è una larga parte di cittadini disposti a sostenere un accordo di compromesso in occasione della prossima votazione popolare. Nell’appello non si propongono accordi di nessun genere, ma si lascia la libertà al Consiglio federale di decidere.
Anche uno studio realizzato dall’Istituto gfs.bern per il Movimento europeo svizzero (MES) dice che il 71% degli svizzeri sarebbe oggi favorevole a un’adesione allo SEE, nonché alla partecipazione ai programmi europei di cooperazione. Nelle domande di approfondimento è pure emerso che coloro che vogliono la neutralità e l’indipendenza della Svizzera sono di poco inferiori a coloro che vorrebbero relazioni stabili con Bruxelles. Nel contempo è però tornata a manifestarsi anche una netta opposizione a qualsiasi accordo che metta in pericolo «l’indipendenza, la libertà, la sicurezza, la democrazia diretta, il federalismo e la neutralità permanente». Lo ha detto anche l’ex-consigliere federale Christoph Blocher ai membri dell’associazione Pro Svizzera riuniti nella tradizionale sala dell’Albisgüetli a Zurigo. Blocher ha anche aggiunto che, il 6 dicembre 1992, la Svizzera è stata «salvata dalle braccia di una classe politica perduta» e che l’anniversario del «no» celebra, quindi, «la rinascita di una Svizzera che, all’epoca, era quasi perduta».
Pur tra molte difficoltà, il Consiglio federale ha cercato, in particolare dopo il ritiro della domanda di adesione, di trovare una formula di accordo che potesse essere accettata dalle parti. Si punta ovviamente sugli accordi bilaterali, ma su questo tema l’UE è irremovibile. In pratica rimane ancorata alle proposte formulate con l’accordo quadro respinto dal Consiglio federale: un accordo istituzionale che contempla la progressiva integrazione nel diritto europeo e regole per il mercato del lavoro che non piacciono ai sindacati svizzeri. Va anche rilevato che alcune analogie con lo SEE del 1992 sussistono: Berna vorrebbe, infatti, negoziare bilateralmente non con i singoli Paesi dell’UE, ma per settori distinti. Dal canto suo, l’UE sarebbe disposta a permettere accessi ai suoi mercati se la Svizzera accettasse le regole applicate ai Paesi dello Spazio economico europeo, e cioè Norvegia, Liechtenstein e Islanda.
Finora la Svizzera pensava di aver risolto il problema con gli accordi bilaterali, ma l’Europa non è della stessa opinione e non perde occasione per rimettere in discussione l’accordo bilaterale interessato (vedi l’energia, il traffico, la ricerca, i programmi di studio). Eppure quella degli accordi bilaterali sembra l’unica via possibile. La Svizzera deve però chiarire le sue posizioni, per giungere a discutere la creazione di un nuovo diritto del mercato interno, al quale dovrebbe poter partecipare fino in fondo. Magari anche rinunciando a una clausola di disdetta dell’accordo, che in casi estremi potrebbe provocare la caduta dell’intero sistema.
È evidente che l’accordo dovrebbe contemplare anche un modello di regolamento dei conflitti, tale da renderlo più accettabile, in Svizzera, del precedente accordo quadro. Questi sono però solo due dei problemi più ardui da risolvere. Rimangono in sospeso gli aiuti statali (per esempio riduzioni fiscali per le aziende, la garanzia per le banche cantonali), per i quali l’UE propone un accordo globale, mentre la Svizzera vorrebbe invece risolvere caso per caso, a causa delle sovranità cantonali; la protezione dei salari (in disaccordo con i sindacati elvetici); le prestazioni sociali (per esempio in caso di disoccupazione o per lavoratori distaccati); infine anche i versamenti al fondo europeo di coesione, sui quali la Svizzera decide di anno in anno, che dovrebbero diventare un impegno permanente. Ci si trova, quindi, di fronte alla classica «quadratura del cerchio», con, da un lato, un’Europa finora poco disposta a far concessioni alla Svizzera e dall’altro un Consiglio federale che deve trovare una soluzione che sia gradita anche al popolo svizzero e alla maggioranza delle sue molteplici componenti.