L’hanno definita «la guerra delle bandiere», visto l’enorme numero di vessilli identitari presenti sui balconi di tutta la Spagna. Prima il protagonismo mediatico era tutto per la «estelada», la bandiera simbolo dell’indipendenza catalana (uno stendardo che si ispira alla stella della bandiera cubana, in polemica allusione alla sconfitta spagnola nella guerra di Cuba del 1898). Da più di tre mesi però, da quando è deflagrata in tutta la sua magnitudine la crisi catalana, spuntano bandiere spagnole da ogni dove in tutto il resto del Paese (ed anche nella stessa Catalogna). A Madrid, dalla centralissima Puerta del Sol passando per l’esclusivo quartiere Salamanca fino alla zona popolare di Vallecas, l’arredamento urbano della capitale ha subito un cambiamento cromatico significativo. Molti edifici della città presentano in effetti un numero sempre più crescente di bandiere spagnole rosso-oro della «rojigualda» (la bandiera ufficiale che da 175 anni è il simbolo dell’unità della Spagna). Allo stesso modo anche sui balconi delle case di periferia e in molte città spagnole sono comparse migliaia di bandiere nazionali, emblema della nascita di un orgoglio patrio che mai era esistito nella recente storia costituzionale spagnola, se non in occasione dei successi della «roja», la squadra nazionale di calcio.
La crisi catalana ha in effetti risvegliato sentimenti nazionalistici in tutta Spagna. Si tratta di un fenomeno nuovo in un Paese che era sempre stato allergico ad esporre il proprio simbolo nazionale perché fino a poco tempo fa era ancora un tabù. «L’esibizione di una bandiera spagnola è sempre stata storicamente un indicatore di un’ideologia conservatrice se non nostalgica della dittatura di Franco», spiega Carmen González, professoressa di Scienze Politiche dell’università UNED. L’indipendentismo catalano è però riuscito a rafforzare un’identità spagnola storicamente fragile e ha contribuito a far aumentare l’ostilità nei confronti della regione di Barcellona. Secondo la stessa González «la debole identità spagnola, alle prese con un complesso di inferiorità che si trascina dai tempi di Franco, si è rafforzata con la comparsa di un nemico, qualcuno che minaccia di rompere l’unità territoriale del Paese».
Per i partiti «costituzionalisti» (Partito popolare, Ciudadanos e Partito socialista) che hanno appoggiato il commissariamento della Catalogna, la nazione spagnola è una realtà «unica e indivisibile», così come recita l’articolo 2 della Costituzione, ed è frutto di un’eredità storica secolare; il suo impianto istituzionale non può essere pertanto messo in discussione nelle sue fondamenta dai secessionisti catalani. Questo concetto è largamente predominante nella società iberica e la sola ipotesi di una separazione della Catalogna dalla Spagna per la maggior parte degli spagnoli è totalmente inaccettabile perché la regione di Barcellona è considerata da sempre una parte integrante del territorio spagnolo.
La crisi catalana ha toccato in effetti un nervo scoperto degli spagnoli che fino a tre mesi fa osservavano quasi con distacco quello che stava succedendo in Catalogna fino a quando non hanno capito, con incredulità, che il secessionismo catalano stava facendo sul serio. Da quel momento in poi, all’escalation indipendentista di Barcellona, è seguita la risposta di questo nazionalismo spagnolo. Nato in parte spontaneamente nei sentimenti della popolazione, cavalcato politicamente dai partiti di centro-destra (Pp e i liberali di Ciudadanos in particolare), dai movimenti dell’estrema destra spagnola e veicolato da una parte dei media centralisti di Madrid, l’antisecessionismo si è diffuso rapidamente in ampi strati della società spagnola, raggiungendo trasversalmente tutti i ceti sociali, dall’alta borghesia fino alle classi popolari. Così questo proliferare di bandiere spagnole è da intendersi come una dichiarazione di netta opposizione all’indipendenza ed è anche un messaggio in chiave anticatalanista.
I nazionalismi (sia quelli del secessionismo catalano che quelli spagnolisti) hanno quindi sempre bisogno dell’esistenza del «nemico» per alimentarsi mutuamente e così facendo ottengono sempre un reddito in termini politici, come abbiamo visto nelle recenti elezioni in Catalogna. Come avvenne già nel voto regionale del 2015, i poli opposti (pro e contro l’indipendenza) sono usciti entrambi vincitori dalla contesa elettorale che sostanzialmente non ha cambiato di molto la situazione. Gli indipendentisti hanno infatti confermato che dispongono di un serbatoio di elettori molto fedeli conquistando il 47,5% dei voti e una risicata maggioranza dei seggi (70, due in meno rispetto al precedente Parlamento), ma Ciudadanos ha capitalizzato l’antagonismo al secessionismo diventando il primo partito catalano con il 25,4% (per un totale del 43,5% dei partiti costituzionalisti, se si conteggiano anche i voti dei socialisti e del Pp).
L’esito elettorale ha quindi riconfermato che la società catalana è spaccata in due e la situazione è rimasta sostanzialmente immutata da quando il 27 ottobre scorso il premier Mariano Rajoy ha deciso l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione e il commissariamento della regione. Rajoy è il grande sconfitto di queste elezioni perché il suo partito (Partito popolare) è uscito con le ossa rotte, fagocitato dalla crescita di Ciudadanos, e ridotto a una presenza quasi irrilevante (4%) in Catalogna. La sconfitta del Pp e il consolidamento degli indipendentisti è un messaggio chiaro anche per tutto il governo di Rajoy perché significa che d’ora in poi Madrid sarà obbligata a risolvere la questione catalana con la politica.
Si è visto che non è bastata l’applicazione della legge attraverso misure straordinarie per sconfiggere i secessionisti, nonostante i maggiori esponenti dei partiti indipendentisti fossero finiti in carcere o in esilio. Ora Rajoy sarà obbligato a fare quello che non ha fatto in tutti questi anni, cioè aprire un dialogo vero con i separatisti, se non vuole che la situazione peggiori ulteriormente. Inoltre il premier potrebbe avere dei problemi con il suo governo di minoranza giacché Ciudadanos, finora stampella del suo esecutivo, potrebbe fare la voce grossa e dettare nuove condizioni per mantenere in vita il governo di Rajoy. Quest’ultimo si troverà ora a dover affrontare a breve lo scoglio dell’approvazione della legge di bilancio (votazione nella quale ha bisogno dell’appoggio imprescindibile di Ciudadanos e dei nazionalisti baschi) che potrebbe mettere in pericolo la sopravvivenza stessa del suo governo.
In Catalogna, invece, sono iniziati i contatti tra le formazioni politiche per formare il nuovo governo della Generalitat. Non si prevede una facile intesa tra i nazionalisti borghesi di Junts per Catalunya (il partito dell’ex presidente in esilio Puigdemont) e la sinistra repubblicana di Esquerra (il cui leader Oriol Junqueras è ancora in carcere). Saranno molto probabilmente ancora le sentenze giudiziarie a determinare gli accordi o le strategie dei partiti indipendentisti, giacché otto degli eletti nel Parlament si trovano ancora in carcere o in esilio in Belgio. I tempi sono brevi dato che il nuovo Parlamento catalano dovrebbe riunirsi il 20 gennaio e l’investitura del nuovo presidente della Generalitat è prevista per il 6 febbraio. Puigdemont si è detto disposto a essere di nuovo presidente, ma la giustizia spagnola lo sta aspettando al varco. Cosa si inventerà questa volta l’ex presidente per non essere arrestato?