«Papà portava i libri di Jules Verne da Mosca e ogni sera ce li leggeva ad alta voce. Il giro del mondo in 80 giorni in quella edizione non aveva illustrazioni e fu papà a illustrarlo per noi. Ogni giorno preparava con matita e inchiostro i disegni adatti per la sera stessa. Mi ricordo bene uno dei suoi disegni, rappresentava una dèa buddista fantastica e terribile, con più teste adornate di serpenti. Aspettavamo la sera con impazienza, e salivamo tutti insieme sul tavolo quando veniva il momento in cui papà tirava fuori il disegno per illustrare una scena».
Quel papà era Leone Tolstoi, il maestro della letteratura russa, uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. L’episodio raccontato nelle memorie di uno dei suoi figli dà la misura dell’impatto enorme che ebbero i romanzi di Jules Verne e in particolare Il giro del mondo in 80 giorni, alla sua pubblicazione nel 1873. Fu uno straordinario interprete dell’atmosfera di fine Ottocento, i suoi romanzi d’avventure divertenti e godibili erano anche il condensato di un’ideologia potentissima, che segnò la storia dell’Occidente: il positivismo, la fiducia nella scienza, l’ottimismo sul progresso tecnologico. Il giro del mondo in 80 giorni da questo punto di vista raggiunge una vetta di perfezione, perché è una specie di enciclopedia della globalizzazione ante-litteram: un riassunto dello scibile umano di quel tempo riguardo ai trasporti, le nuove vie di comunicazioni, un globo terrestre che si fa sempre più piccolo e che viene concupito dall’intraprendenza e dalla curiosità degli occidentali. È il romanzo che preannuncia a milioni di lettori l’avvento di un’epoca nuova.
Costruisce la trama del suo romanzo a partire da tre eventi fondamentali avvenuti a cavallo del 1869 e 1870. Tutti e tre sconvolgono le mappe della storia e quelle della geografia, i tempi di viaggio e di trasporto. Il 10 maggio 1869 negli Stati Uniti viene inaugurata solennemente la linea ferroviaria che unisce le due coste: da quel giorno è possibile andare da New York a San Francisco in treno. Solo in quel momento gli Stati Uniti diventano veramente una nazione unica, nel loro vasto territorio riducono le distanze e gli ostacoli geografici che sembravano insormontabili. Come sottolinea Verne entusiasta, la durata di un viaggio da San Francisco a New York passa di colpo da sei mesi a sette giorni! A pensarci bene, forse è più rivoluzionario quel cambiamento, dell’avvento del jet che riduce lo stesso viaggio a sei ore di volo.
Sei mesi dopo, il 17 novembre 1869 dall’altra parte del mondo (in Egitto) viene aperto alla navigazione il canale di Suez, scorciatoia che consente di evitare la circumnavigazione dell’Africa e taglia drasticamente i tempi di viaggio tra Europa, India, Estremo Oriente (in seguito diventerà anche un’arteria strategica per il petrolio del Golfo Persico). Passano solo altri quattro mesi e il 7 marzo 1870 viene completata la ferrovia da Bombay (oggi Mumbai) a Calcutta (oggi Kolkata): è l’equivalente della transcontinentale americana, questa unisce i due golfi opposti e le due coste del subcontinente indiano, che a quell’epoca appartiene all’Impero britannico. La concatenazione delle grandi opere è irresistibile, l’impatto sulla velocità di trasporto è fenomenale. Un giornale francese dell’epoca, «La Presse», scrive: «Con i mezzi di locomozione di oggi, diventa possibile fare il giro del mondo in ottanta giorni. È il tempo che una volta ci voleva a un aristocratico per viaggiare da Parigi a San Pietroburgo».
La storia, avventurosa e ricca di colpi di scena, nasce per gioco in un circolo esclusivo frequentato da gentlemen a Londra. Il protagonista, l’inglese Phileas Fogg, scommette con gli amici del club che sarà in grado di fare il giro del mondo e tornare lì a Londra allo scadere dell’ottantesimo giorno. C’è una bella somma in palio ma non è quello il vero movente della corsa spericolata contro il tempo. C’è la possibilità di descrivere a volo d’uccello i tanti paesi attraversati, le loro civiltà remote, le strane usanze, e Verne lo farà con gusto (scopiazzando libri altrui): ma non è neanche questo il vero tema del romanzo. Il protagonista degli 80 giorni non è curioso dei paesi che attraversa; ben più attento ai paesaggi e alle persone è il suo aiutante, il fido Passepartout. A Fogg in realtà interessa il viaggio in quanto tale, la sua dimensione tecnica, il rispetto degli orari, la sfida della velocità.
Moderna Odissea, il cui Ulisse è freddo e razionale: l’unica divinità che si aggira ne Il giro del mondo in 80 giorni è il dio Progresso. Questo romanzo è stato definito anche un inno alla macchina a vapore. Verne si estasia e si commuove davanti alla locomotiva e al piroscafo. La rivoluzione industriale è un’epopea liberatrice, affranca l’uomo da vincoli ancestrali, lo spazio e il tempo sono alla sua mercè. Lo stesso Verne descrive il suo personaggio Fogg come un «prodotto delle scienze esatte». Il manuale degli orari è la Bibbia di Fogg, che lui consulta in modo maniacale. E fideistico: ha la certezza che non può essere sbagliato. L’età della Ragione, il positivismo, l’atmosfera ottimista che trasuda dalle pagine di Verne, è il frutto di un continuo avanzare verso livelli di efficienza superiori.
A me è successo di respirare la stessa eccitazione, la stessa fiducia nel progresso, quando abitavo in Cina (dal 2004 al 2009), un Paese dove il miglioramento materiale è stato spettacolare negli ultimi decenni, ivi compreso nella qualità affidabilità e velocità dei trasporti. Molti cinesi, e altri popoli asiatici, vivono oggi una fase «alla Jules Verne», perché da loro quasi tutto funziona sempre meglio e il mondo si sta aprendo alla loro curiosità, al loro spirito d’intraprendenza, alla loro ambizione.
È possibile sognare mondi lontani leggendo un annuario delle ferrovie e dei traghetti, questo accadeva nell’Ottocento a Jules Verne. A lui non sfuggiva la posta in gioco economica. Sulle locomotive e sui piroscafi viaggiano gli uomini d’affari del suo tempo, e le loro merci. Il canale di Suez e le ferrovie intercontinentali danno slancio alla prima globalizzazione del mondo contemporaneo, quella sotto l’egemonia britannica.
L’apice di quel mondo coincide con una cerimonia trionfale: il giubileo di diamante della Regina Vittoria, il 60esimo anniversario del suo regno, che viene celebrato nel 1897. Il festeggiamento dell’anziana sovrana è un’esibizione di potenza da parte dell’impero più vasto della storia umana. Marciano per le vie di Londra 64’000 soldati venuti a omaggiare la loro imperatrice da tutti i continenti. La storica Barbara Tuchman ha enumerato puntigliosamente i reparti di quella sfilata, perché contengono un riassunto dell’impero: «Gli ussari canadesi, i lancieri del Galles, la cavalleria leggera di Trinidad, i lancieri con barba e turbante di Khapurthala, del Badnagar e altri Stati indiani, gli Zaptich di Cipro coi loro fez, la polizia del Borneo, gli artiglieri della Giamaica, le forze reali nigeriane, i Sikh, i cinesi di Hong Kong, i malesi da Singapore, i neri delle Indie orientali, della Guiana britannica e della Sierra Leone».
Tutto questo dispiegamento militare è solo una faccia dell’impero britannico, l’altra è il suo globalismo economico. Prefigurando quel che sarà l’impero americano nel secolo successivo, l’Inghilterra è al centro di un sistema dei commerci intercontinentale, apre il suo mercato interno ai prodotti delle colonie, talvolta a scapito dei produttori domestici. Con l’inaugurazione della prima nave dotata di celle frigorifere (la SS Elderslie costruita nel 1884) il mercato britannico comincia ad essere approvvigionato con carne e latticini importati dalla Nuova Zelanda, dall’Australia, dall’Argentina. Quando si apre il Novecento, Londra importa ormai il 60% del suo fabbisogno alimentare e l’80% dei cereali. Il mercato globale è una realtà, di cui Verne è stato il cantore più preveggente.
Una magnifica ricostruzione dell’atmosfera di quel tempo è nelle pagine di uno storico di origine austriaca, Philipp Blom. Nel suo libro The Vertigo Years, cioè gli anni delle vertigini, l’atmosfera ottimista della Belle époque si apre con due eventi che hanno luogo proprio in Francia, le due Esposizioni Universali di Parigi che avvengono nel 1889 e poi ancora nel 1900. Della prima ci rimane la Tour Eiffel, quella freccia puntata verso il cielo che fa venire in mente i sogni di esplorazione spaziale dello stesso Verne (Dalla terra alla luna). La seconda Expo di Parigi sembra voler esibire in un luogo solo tutti gli esotismi descritti dal Giro del mondo in 80 giorni. Nel 1900 la capitale francese si trasforma in un parco attrazioni, precursore di EuroDisney o di Las Vegas, all’insegna della globalizzazione.
Sulla riva della Senna davanti al palazzo del Trocadero viene allestita una mostra «coloniale», un po’ parco giochi un po’ shopping mall, che mette in scena il mondo unificato dai mezzi di trasporto e dagli imperialismi occidentali. «Era un mondo elegante, innocente, eccitante – scrive Blom – dove il visitatore poteva fare acquisti in un suk del Cairo, ammirare gli artigiani di Algeri, mangiare in un ristorante cinese, visitare una pagoda cambogiana. Gli africani che risiedevano nel padiglione del Congo francese erano particolarmente ben pasciuti e vestiti con eleganza. Non c’era la minima traccia di quel che stava accadendo nella loro terra congolese: il genocidio perpetrato sotto la supervisione personale di Sua Maestà re Leopoldo del Belgio, uno degli ospiti d’onore di quella Expo».